LUIGI OLIVERI

Sulla permanenza di un ordinamento omogeneo degli enti locali
dopo la legge costituzionale 3/2001.

Nell'analizzare il rapporto esistente tra le fonti del diritto fondato sulla novellazione della Costituzione, non pochi interpreti, con specifico riferimento al sistema giuridico degli enti locali, si chiedono se sia più possibile parlare di un "ordinamento degli enti locali" determinato da leggi generali. Il problema, a sua volta, si articola in altre questioni. Posto che un ordinamento omogeneo sia ancora ammissibile, a quale ente spetta la potestà normativa, Stato o regione? Ma se l'ordinamento omogeneo non è più in linea con la Costituzione, allora occorre ammettere che gli statuti abbiano assunto potestà ordinamentale piena ed esclusiva, sì da essere posti in relazione di competenza e non di gerarchia con le leggi?

All'apparenza, le soluzioni proponibili alle domande poste sopra sembrano tre. Una prima risposta continua a vedere nella legge dello Stato l'unica fonte ordinamentale locale. Una seconda afferma che l'ordinamento debba essere disciplinato in combinato disposto tra legge dello Stato e legge regionale. Una terza, prende atto che l'ordinamento degli enti locali, in realtà, non esiste, sicchè ciascuno statuto è "ordinamento".

Passando all'esame della prima possibile risposta, occorre verificarne le possibili argomentazioni a sostegno.

 

Ordinamento locale di competenza statale.

La tesi incline a ritenere che l'ordinamento degli enti locali è materia di competenza della legge dello Stato trova il suo fondamento nell'articolo 117, comma 2, lettera p), della Costituzione. Detta norma, a mente della quale la legge dello Stato disciplina gli organi e le funzioni dei comuni, andrebbe interpretata in senso estensivo. La Costituzione, ovvero, avrebbe assegnato espressamente alla legge dello Stato solo la disciplina degli organi e delle funzioni, intendendo, tuttavia, con questo confermare alla legge statale la potestà normativa (che, dunque, sarebbe esclusiva) relativa all'intera materia dell'ordinamento locale.

Prima di evidenziare le possibili critiche a questa impostazione, non si può fare a meno di osservare che, di fatto, l'interpretazione in argomento sembra quella privilegiata attualmente dal Parlamento e dal Governo.

Lo dimostrano, intanto, i fatti. La legge 448/2001 è intervenuta in modo molto pervasivo sull'ordinamento locale, ad esempio innovando radicalmente la materia dei servizi pubblici locali ed estendendo la possibilità per i comuni fino a 5.000 abitanti di derogare al principio di separazione delle competenze tra organi di governo ed organi amministrativi.

Lo confermano, inoltre, le dichiarazioni anche dei componenti della compagine governativa. Il sottosegretario agli interni, senatore Antonio D'Alì in merito ai possibili profili di incostituzionalità della riforma dei servizi pubblici locali ha affermato (1) che "questi aspetti debbano essere ricompresi nella cosiddetta normativa di principio che deve individuare le funzioni fondamentali degli enti locali e che la riforma costituzionale riserva comunque allo Stato". Il sottosegretario ha confermato, sempre nell'ambito della medesima dichiarazione, un orientamento politico-interpretativo, che dovrebbe evidentemente essere ricondotto all'intero Governo, in merito al problema della possibile regionalizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti locali, sostenendo che "ci potranno essere delle peculiarità regionali, ma nell'ambito di un quadro di principi che dovrà essere necessariamente definito a livello statale".

Insomma, nell'articolo 117, comma 2, lettera p), taluno intravede la riformulazione dell'abrogato articolo 128 della Costituzione, il quale stabiliva che "le provincie e i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni". Il riferimento contenuto nell'articolo 117, comma 2, lettera p), proprio alle funzioni legittimerebbe la legge dello Stato a fissare i principi generali riguardanti tutto l'ordinamento locale. Dunque, l'ordinamento omogeneo locale continua ad esistere, in funzione del permanere di una funzione della legge dello Stato di determinare organi e funzioni, e, dunque, l'assetto istituzionale e funzionale degli enti.

Si tratta di un approccio interpretativo prudente, per non dire conservatore. Ma a ben guardare non sembra possibile considerarlo in linea col significato della riforma della Costituzione.

Analizzando criticamente la tesi sin qui esposta, si può in primo luogo notare che se la novella costituzionale avesse voluto assegnare allo Stato una potestà legislativa piena, esclusiva e generale riguardo l'ordinamento locale, per il tramite di una normativa di principi generali, non avrebbe certamente abrogato l'articolo 128: sarebbe bastato sostituire il riferimento alle leggi della Repubblica, con il richiamo alle leggi dello Stato (che nel nuovo assetto istituzionale determinato dall'articolo 114 della Costituzione è uno degli enti che compongono la Repubblica e non coincide con essa).

Dunque, ragionando al contrario, se la legge 3/2001 ha abrogato l'articolo 128 della Costituzione, inevitabilmente la categoria delle leggi generali poste a fissare i principi delimitanti l'ambito di autonomia dell'ordinamento locale sì da fissare, indirettamente, un ordinamento locale omogeneo deve ritenersi espunta dalla novella.

Confrontando, del resto, il testo dell'articolo 128, con quello dell'articolo 117, comma 2, lettera p), si nota che il contenuto di quest'ultimo è certamente molto più ristretto e settoriale. La legge dello Stato, in realtà, può disciplinare:

1) gli organi di governo; è la legge dello Stato, pertanto, che li individua e, lungo una linea di continuità normativa, ne definisce le competenze (o ne detta i criteri di definizione);

2) le funzioni: è la legge dello Stato a stabilire quali funzioni possano essere esercitate dagli enti locali.

Quest'ultimo aspetto è da leggere in connessione con gli articoli 118, comma 1, e 117, comma 5, ultimo periodo, della Costituzione. Il primo prevede che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che per assicurarne l'esercizio unitario siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato. Il secondo prevede la simmetria tra le funzioni conferite agli enti locali e la potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento di dette funzioni.

Dunque, lo Stato conserva la potestà legislativa in merito alle funzioni degli enti locali, ma non per fissare i principi ordinamentali. L'assegnazione della richiamata potestà legislativa è funzionale alla necessità di attribuire all'ente territoriale di massima aggregazione della popolazione il compito di verificare quali tra le funzioni amministrative, spettanti a titolo originario ai comuni, possano e debbano essere loro sottratte, per essere assegnate ad enti territoriali più grandi, in relazione ad esigenze di unitarietà di esercizio. Infatti, in realtà, poiché l'articolo 118, comma 1, stabilisce che le funzioni amministrative sono sempre dei comuni, la legge dello Stato può solo specificare dette funzioni, o sottrarle ai comuni, per attribuirle agli enti territoriali di maggiori dimensioni, non certo conferirle.

Detta funzione specificativa o di "sottrazione" di ambiti regolamentari non ha nulla in comune con una legislazione generale di principio, quale quella una volta prevista dall'articolo 128 della Costituzione, la cui abrogazione non può essere considerata come inutiliter data.

Se così stanno le cose, come in realtà sembra, allora la legge dello Stato non ha più la funzione di dettare i principi generali riguardanti l'intera materia dell'ordinamento locale.

D'altra parte, si è correttamente osservato (2) che se la Costituzione avesse voluto attribuire alla legge dello Stato la potestà di disciplinare l'ordinamento locale, lo avrebbe disposto espressamente. Infatti, quando la novella costituzionale si è riferita all'ordinamento, lo ha fatto esplicitamente, come ad esempio nella lettera g) dell'articolo 117, nella quale assegna manifestamente alla potestà legislativa dello Stato l'ordinamento dello Stato medesimo. Nel caso degli enti locali, invece, manca del tutto un'assegnazione chiara alla legge dello Stato di una competenza normativa generale, simile a quella dell'abrogato articolo 128 della Costituzione.

 

Ordinamento locale ripartito tra legge statale e regionale.

La seconda soluzione ipotizzabile prevede una ripartizione delle competenze tra legge dello Stato e legge regionale (3).

Questa interpretazione si fonda sulla presa d'atto che, come visto sopra, la legge dello Stato può intervenire solo nella materia dell'individuazione degli organi di governo locale e delle loro competenze, nonché nella specificazione o "sottrazione" delle funzioni amministrative dei comuni (e relativo conferimento ad enti territorialmente di maggiori dimensioni). Sicchè, la restante parte della disciplina ordinamentale generale sarebbe di competenza della legislazione regionale, la quale avrebbe, dunque, potestà nelle seguenti materie:

1) disposizioni generali relative alle fonti dell'autonomia locale ed i loro rapporti con la legge e la Costituzione;

2) diritto d'accesso e la partecipazione;

3) soggetti e organizzazione delle funzioni da essi svolte;

4) organizzazione e personale, nel rispetto delle disposizioni del Codice civile, che non può essere soggetto a modifiche o deroghe da parte della legge regionale e dei principi in materia desumibili dalla Costituzione;

5) segretari comunali e provinciali;

6) dirigenza locale;

7) servizi pubblici locali, con la specificazione che relativamente alla produzione, trasporto e distribuzione a livello nazionale dell'energia, la potestà legislativa regionale è di tipo concorrente;

8) controlli non tanto sugli atti, la cui disciplina appare preclusa alla legge regionale dall'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione, quanto sugli organi;

9) ordinamento finanziario e contabile.

Come sottolineano parecchi interpreti (4) questa interpretazione porta necessariamente a concludere per una frammentazione estrema della disciplina normativa, con la conseguenza di una difficile configurazione dei confini della potestà normativa delle leggi. V'è, infatti, il rischio di un'interferenza notevole e continua tra le leggi dello Stato e quelle delle regioni, come proprio l'articolo 35 della legge 448/2001 sta a testimoniare.

 

Rapporti tra legge dello Stato e leggi regionali.

Pare opportuno, a questo punto, allargare l'analisi alla verifica dei reciproci rapporti tra legge dello Stato e legge regionale. Infatti, il quadro della ripartizione normativa dell'ordinamento locale tra legge dello Stato e legge regionale risulta tanto più complesso e frammentario, quanto maggiori siano le interferenze tra le citate norme.

Ora, appare del tutto evidente che il maggiore grado di interferenza possibile si determina se si ammette (5) che le leggi dello Stato possano dettare disposizioni normative anche nell'ambito delle materie non espressamente richiamate nei commi 2 e 3 dell'articolo 117 della Costituzione, ovvero nell'ambito della potestà legislativa di tipo generale e residuale delle regioni.

Alcuni autori sostengono che detta potestà legislativa generale e residuale sia da intendere come potestà legislativa concorrente "pura", in contrapposizione alla potestà legislativa concorrente "tipizzata", prevista dal comma 3 del citato articolo 117.

Il rapporto esistente tra legge statale e regionale poste in una relazione di concorrenzialità pura viene ricostruito nel senso che sia lo Stato, sia la regione, nelle materie non elencate dall'articolo 117, possono legiferare in merito. Il primato legislativo spetta all'ente che legifera per primo, ma, in ogni caso la legge dello Stato cederebbe rispetto alla disciplina regionale. La "cedevolezza" della legge statale rispetto a quella regionale sarebbe la chiave per dare razionalità al sistema.

Detta ricostruzione viene considerata la migliore, per evitare possibili vuoti normativi all'ordinamento giuridico, nel caso di inerzia normativa alle regioni.

Il fondamento giuridico dell'interpretazione qui richiamata deriverebbe dalla constatazione che l'ultimo periodo del comma 3 dell'articolo 117 della Costituzione non assegna espressamente alle regioni una potestà legislativa esclusiva. Tanto è vero che il disegno di legge di ulteriore riforma della Costituzione, invece, prevede espressamente una potestà legislativa regionale esclusiva: ciò significa che se il legislatore costituzionale sente il bisogno, con una nuova norma, di chiarire che la potestà legislativa regionale (futura) sarà esclusiva, quella attuale non lo è: dunque è una potestà legislativa concorrente non tipizzata.

Ora, questa chiave interpretativa non appare del tutto persuasiva. In primo luogo, perché non si capirebbe, anche in questo caso, il senso di un intervento di riforma che, evidentemente, risulterebbe molto meno profondo ed innovatore, nel momento in cui si ammettesse che lo Stato concorre con le regioni alla produzione normativa generale e residuale.

In sostanza, la tesi sopra sintetizzata giunge a negare uno degli assunti fondamentali alla base della riforma, ovvero l'inversione della titolarità della potestà legislativa generale. Nel sistema costituzionale antecedente alla legge 3/2001, la potestà generale e residuale era dello Stato. Alle regioni a statuto ordinario spettava una potestà legislativa concorrente, solo nelle materie espressamente elencate dall'articolo 117. Detta elencazione aveva lo scopo di sottrarre dalla generalità delle materie oggetto della potestà legislativa statale quelle sulle quali le regioni potevano esercitare la propria potestà legislativa, nel rispetto dei principi e dei limiti imposti nel precedente sistema. L'enumerazione, dunque, delle materie aveva lo scopo di chiarire quando la legge dello Stato non era dotata di una potestà generale ed esclusiva.

Non pare che nella nuova formulazione il criterio dell'enumerazione delle materie riservate alla potestà esclusiva e concorrente dello Stato assuma una funzione differente (6) da quella rivestita nel precedente regime.

Le argomentazioni che suffragano l'esistenza di una potestà legislativa regionale concorrente pura, a ben vedere, non reggono alle critiche che si possono contrapporre.

Con riferimento alla mancanza di una espressa enunciazione della potestà legislativa regionale come esclusiva. Se è vero che l'articolo 117, comma 3, non dispone espressamente che la potestà legislativa regionale sia esclusiva, è altrettanto vero che detta norma non prevede espressamente nemmeno che detta potestà sia concorrente con quella dello Stato. Pertanto, questa argomentazione non appare persuasiva, in quanto carente della caratteristica di prevalere, su un piano ermeneutico, rispetto a quella diametralmente opposta. Per altro, si può osservare che "sebbene la novella costituzionale non abbia in via espressa limitato le competenze della potestà dello Stato, tuttavia abbia implicitamente, ma abbastanza chiaramente, previsto una <riserva> di competenze: in altre parole, la novella dell'articolo 117 della Costituzione nell'elencare, al comma 2, le materie rientranti nella potestà esclusiva dello Stato – che in quanto tale non può essere "invasa" da quella regionale – ha provveduto, al comma 3, a chiarire che queste materie sono espressamente riservate allo Stato. Pertanto, a contrario, su tutte le materie che non sono coperte da questa riserva la potestà legislativa spetta, anch'essa in via riservata e, dunque, esclusiva, alle regioni. Il combinato disposto, in sostanza, dei commi 2 e 3 dell'articolo 117 ha posto in essere quella doppia riserva di assegnazione delle materie, che caratterizza tipicamente il rapporto di competenza tra fonti" (7).

Con riferimento alla necessità di salvaguardare l'ordinamento da vuoti normativi. L'impostazione del rapporto tra leggi dello Stato e leggi regionali, nelle materie non enumerate dall'articolo 117, come di concorrenza pura può essere utile solo nella fase di trapasso dal precedente all'attuale regime, per significare che le leggi dello Stato vigenti non perdono, evidentemente, la loro efficacia cogente per il semplice fatto che adesso la potestà legislativa spetta alle regioni. In tal modo, dunque, si garantisce che non si creino vuoti normativi. Ma, in realtà, a tale fine non occorre nemmeno configurare il rapporto tra leggi dello Stato e leggi regionali come di concorrenza pura. E' chiaro che nel passaggio da un regime delle competenze legislative all'altro le leggi dello Stato dispiegano tutti i loro effetti, finchè le regioni non intervengano con proprie norme. La ripartizione delle competenze normative tra Stato e regioni e l'incostituzionalità della violazione della competenza (sanzionabile mediante la procedura di cui all'articolo 127) riguardano le leggi successive all'entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001, non quelle precedenti. La tutela costituzionale di cui all'articolo 127 della Costituzione non riguarda, infatti l’attribuzione della competenza medesima, ma il suo esercizio. Dunque, scatta solo dopo (e non prima) che la Costituzione abbia abilitato la regione ad esercitare una certa competenza normativa. Sicchè l'incostituzionalità delle leggi statali, per violazione della competenza esclusiva delle regioni, riguarda solo le leggi successive all'8 novembre 2001, giammai quelle precedenti.

Ciò, allora, non consente di ritenere che interpretare la potestà legislativa generale residuale delle leggi regionali come esclusiva determini rischi di vuoti normativi. L'ordinamento, se una regione rimane inerte, troverà la fonte della disciplina di una certa materia nelle leggi dello Stato ancora vigenti e, se fosse necessario, nell'interpretazione analogica.

Con riferimento alla previsione della potestà legislativa regionale esclusiva espressa nel nuovo disegno di legge di riforma della Costituzione, della cosiddetta devolution. Detta argomentazione non appare di per sé sufficiente, in quanto, come visto in precedenza, l'articolo 117 della Costituzione pare possa e debba già nell'attuale formulazione essere interpretato nel senso che la potestà generale residuale delle regioni sia esclusiva. Pertanto, è possibile sostenere che l'espressa menzione, nel nuovo disegno di legge, della caratteristica di esclusività della potestà legislativa regionale abbia solo valore di chiarimento interpretativo, e non di introduzione ex novo di una caratteristica prima non posseduta dalle leggi.

Per altro, occorre sottolineare che se si ammettesse un rapporto di concorrenzialità pura tra leggi dello Stato e leggi della regione, in realtà non si potrebbe più determinare con un criterio interpretativo chiaro le relazioni intercorrenti tra dette leggi. Non si tratterebbe certo di gerarchia, in quanto la concorrenzialità pura, forse meglio definibile come alternatività, consentirebbe allo Stato e alle regioni di disciplinare la medesima materia con medesima forza normativa. La cedevolezza della norma statale rispetto a quella regionale non basterebbe a specificare meglio la relazione. Starebbe solo ad indicare che la legge statale dovrebbe cedere necessariamente il passo ad una successiva legge regionale, il che accade lo stesso tra norme di pari efficacia nella gerarchia delle fonti, in applicazione del principio della successione nel tempo. Per altro, la cedevolezza sarebbe soltanto apparentemente un criterio di supremazia della legge regionale rispetto a quella statale. Infatti, la concorrenzialità pura implica che lo Stato possa in qualsiasi momento reintervenire su una materia nella quale aveva emanato una legge, poi superata da una successiva legge regionale, con una ulteriore legge statale.

L'esito finale sarebbe una ancora maggiore accentuata frammentazione dell'ordinamento giuridico ed una sostanziale incertezza del diritto, soprattutto se il susseguirsi tra leggi statali e regionali non fosse sostenuto da abrogazioni espresse dell'intera disciplina precedente. Altrimenti, il cittadino rischierebbe di trovarsi di fronte ad un irrisolvibile puzzle normativo, formato da più fonti di più enti, dotate di medesima potestà e forza.

Per altro, la ricostruzione della relazione tra leggi statali e regionali come concorrenzialità pura, oltre ad eslcudere un rapporto in termini di concorrenza, impedisce anche ricostruzione del rapporto in termini di competenza. Infatti, il criterio della competenza richiede necessariamente la "riserva", cioè l'impedimento assoluto che una norma possa travalicare i propri confini e disciplinare le materie assegnate ad un'altra fonte.

Ma ciò apparirebbe contrario ad una razionale ricostruzione del rapporto tra legge dello Stato e legge della regione, che va necessariamente ricostruito in termini di competenza, laddove non sia inquadrato nell'ambito della potestà legislativa concorrente, non fosse altro perché l'articolo 127 della Costituzione disciplina una procedura giurisdizionale di fronte alla Consulta per garantire sia la legge statale, sia quella regionale, quando vi siano invasioni reciproche di competenza. Allora, se così è, non può essere contestato che la potestà legislativa residuale delle regioni vada configurata come potestà spettante alla competenza delle regioni, competenza che deve essere necessariamente esclusiva, in quanto tutelabile davanti alla Corte costituzionale. A questo proposito, bisogna ricordare che nel precedente regime le regioni non disponevano di un simile strumento di tutela delle proprie leggi, proprio perché non dotate di una potestà legislativa esclusiva.

Se così stanno le cose, allora, il quadro normativo di un ordinamento degli enti locali composto da disposizioni legislative dello Stato limitate alla sola materia di disciplina degli organi di governo e di specificazione delle funzioni, nonché da disposizioni normative regionali riguardanti tutte le altre materie (ferma restando la problematicità posta da competenze statali esclusive di tipo "trasversale" come la tutela della concorrenza), appare maggiormente conforme alla riforma costituzionale e meno complesso, anche se certamente di difficile ricostruzione.

 

L'inesistenza di un ordinamento generale degli enti locale.

Una terza lettura proponibile nega che, in realtà, la materia dell'ordinamento degli enti locali rientri nelle competenze esclusive o concorrenti della legge dello Stato, così come nella legislazione concorrente o esclusiva delle regioni. In realtà, potrebbe non esservi più, proprio perché è stato abrogato l'articolo 128 della Costituzione, la necessità di un ordinamento degli enti locali disciplinato da norme di principio.

Pertanto, la disciplina ordinamentale, ad eccezione della disciplina degli organi e delle funzioni, rientrerebbe integralmente nella competenza normativa staturaria. In tal modo, si darebbe contenuto di valore concreto alla costituzionalizzazione della fonte statuto, scaturente dall'articolo 114, comma 2, della Costituzione.

Gli statuti, infatti, sarebbero la fonte non di un ordinamento degli enti locali, ma dei tanti ordinamenti comunali, provinciali, delle unioni dei comuni, delle città metropolitane, delle comunità montane, dei consorzi, che compongono, in mille sfaccettature, l'insieme delle amministrazioni locali.

Dunque, lo statuto, per questa strada, assumerebbe, finalmente, un vero ruolo di fonte dell'autonomia locale, posto, per altro, in piena relazione di competenza e non di gerarchia con le leggi dello Stato e delle regioni. Queste ultime, in realtà, sarebbero, allora, prive di qualsiasi competenza legislativa in materia di enti locali. La composizione dell'ordinamento locale sarebbe, quindi la risultante delle leggi statali sulla determinazione delle competenze degli organi di governo e delle funzioni, e delle disposizioni statutarie per tutte le restanti materie.

La testi su esposta appare molto suggestiva e potrebbe, in realtà, divenire un punto di approdo di un'ulteriore riforma più marcatamente autonomista.

Ma in realtà, essa non appare completamente persuasiva. Intanto, essa non può certamente configurarsi come meno problematica della tesi di cui al precedente paragrafo, tendente a considerare l'ordinamento locale come composto da leggi dello Stato e leggi regionali. Se quella tesi si espone alla critica dell'eccessiva frammentazione normativa e della difficoltà interpretativa, a maggio ragione e con ben altre proporzioni lo sarebbe una tesi che nega l'esistenza di un ordinamento locale e rilasci pressoché ai soli statuti la disciplina dell'ordinamento locale. La frammentazione sarebbe tale da trovarsi di fronte a decine di migliaia di fonti esclusive dei diversi ordinamenti locali.

Ma, allora, a questo punto, a quale fonte spetterebbe la disciplina di una materia quale quella dei servizi pubblici locali? Allo statuto locale? Appare difficile sostenerlo, considerando che la gestione dei servizi pubblici locali da tempo, per legge, è considerata appartenente ad ambiti più vasti di quelli comunali. Tutta la normativa più recente mira alla creazione di bacini di utenza intercomunali ed alla costituzione di enti a partecipazione pluricomunale.

Pertanto, la normativa statutaria non appare idonea di per sé ad una simile disciplina. Lo stesso dicasi per l'ordinamento del personale.

Allora, per superare le evidentissime difficoltà normative, si sarebbe portati ad attrarre quanto più possibile la disciplina delle materie comunque connesse con l'ordinamento locale verso la fonte legislativa dello Stato, quanto meno per fini di coordinamento. Col rischio che le norme legislative dello Stato si evolvano sempre più verso interventi più di disciplina concreta che non di fissazione di principi.

L'esaltazione autonomista sarebbe entro breve tempo vanificata.

Ma un'altra considerazione appare molto più decisiva delle conclusioni cui si è fin qui giunti, per negare che l'ordinamento locale sia riconnesso esclusivamente all'endiadi leggi dello Stato di cui all'articolo 117, comma 2, lettera p) e statuti.

Perché lo statuto degli enti locali possa essere realmente considerato fonte dell'ordinamento locale, posto in una relazione di competenza con le leggi dello Stato (ma anche delle regioni) occorrerebbe rinvenire nel testo della Costituzione la riserva di competenza di cui parla la dottrina classica (8). Ma ad uno sguardo attento, l'attuale testo della Costituzione non riserva alcuna specifica materia agli statuti locali e si limita esclusivamente a prevedere lo statuto quale fonte dell'autonomia, senza attribuirgli in via né concorrente né esclusiva determinate o determinabili materie di disciplina normativa.

L'articolo 123 della Costituzione, invece, quando disciplina gli statuti delle regioni, dispone espressamente che essi hanno la competenza di determinare la forma di governo ed i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento delle regioni. In sostanza, l'assetto istituzionale ed organizzativo delle regioni è rimesso integralmente, per espressa riserva costituzionale, alla potestà normativa degli statuti regionali.

Simile riserva, invece, non esiste per gli statuti locali. Sicchè il loro ambito normativo dovrà continuare ad essere determinato dalla legge ordinaria, come nell'attuale regime. Legge ordinaria che sarà dello Stato con riferimento alle elezioni, alla disciplina degli organi di governo e di specificazione delle funzioni; della regione per tutte le restanti materie attinenti all'autonomia locale.

Lo statuto come composizione unitaria della frammentazione normativa tra leggi statali e leggi regionali.

E', tuttavia, possibile tentare di impostare una quarta ricostruzione del quadro normativo che compone l'ordinamento locale.

Detta ricostruzione ammette che un ordinamento locale omogeneo debba esistere e che debba necessariamente essere fissato dalle leggi dello Stato e delle regioni, ciascuna per le proprie materie loro riservate in via esclusiva dalla Costituzione.

Tuttavia, il rilievo costituzionale assunto dagli statuti locali dovrebbe far ritenere che qualsiasi disposizione legislativa relativa alla materia dell'ordinamento locale dovrebbe necessariamente configurarsi come fissazione di principi e mai come disposizioni di regolamentazione diretta della materia.

Occorre, in altre parole, una legislazione statale e regionale assolutamente agile, leggera, composta di pochissime norme, tutte enuncianti in modo chiaro principi normativi e, soprattutto, le possibilità e modalità di eventuali deroghe da parte della normativa locale.

La restante parte dell'ordinamento, fatta salva questa comune fissazione di principi che assicurerebbe il persistere di un ordinamento omogeneo, dovrebbe spettare esclusivamente alla potestà normativa statutaria.

Per esemplificare, la legge dello Stato nel disciplinare gli organi di governo non dovrebbe, come attualmente il D.lgs 267/2000, determinare in maniera esaustiva l'elenco delle competenze del consiglio, del sindaco, della giunta e della dirigenza.

Dovrebbe limitarsi, invece, a dettare norme di principio come, ad esempio, la previsione di un organo collegiale rappresentativo della cittadinanza, di un organo di governo ristretto preposto alla direzione operativa, di un organo di governo monocratico dotato del potere di stabilire l'indirizzo politico-amministrativo, di sovraintendere all'esercizio delle funzioni amministrative e di avvalersi della collaborazione dell'organo collegiale di direzione operativa. Nonché di un apparato organizzativo, dotato del potere di attendere alle funzioni gestionali non rientrante in quelle di governo, rinvenibili in ulteriori norme di principio generali, come l'articolo 4 del D.lgs 165/2001, specificate dallo statuto.

Simili norme darebbero larghissimo spazio ad un ordinamento differenziato ma coerente, omogeneo ma autonomo al tempo stesso, costruito in misure, forme, relazioni differenti da ciascun ente in base alla qualità e quantità dei servizi da rendere alla propria popolazione.

Lo statuto, allora, dovrebbe assumere la dimensione di norma "lunga" e completa, al posto del D.lgs 267/2000, che per la sua analiticità di dettaglio, appare certamente non in linea con il modello di autonomia derivante dalla riforma costituzionale.

L'anomalia costituzionale dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, come modificato dall'articolo 29, comma 4, della legge 488/2001.

A questo punto dell'analisi, non pare inutile una riflessione sull'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, come novellato dall'articolo 29, comma 4, della legge 448/2001. Già accorta dottrina (9) ha segnalato il fumus di incostituzionalità che caratterizza detta norma, derivante dal suo possibile contrasto con gli articoli 97 e 98, sui quali si fonda il principio di separazione delle competenze degli organi di governo da quelle degli organi gestionali, che non sarebbe altro che la concreta attuazione dei principi di buon andamento ed imparzialità tratti dalle citate disposizioni costituzionali.

Ora, l'incostituzionalità dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 per violazione ai suddetti principi pur essendo fortemente sostenibile, non è certamente dimostrabile in modo assoluto. Infatti, fino all'entrata in vigore del D.lgs 29/1993 nessuno ha mai dubitato della costituzionalità dell'assegnazione, da parte della legge, delle funzioni di gestione agli organi di governo. Il principio di separazione è, evidentemente, frutto di una lettura evolutiva degli articoli 97 e 98 (ma anche 95) della Costituzione. Nella precedente sensibilità interpretativa, la rappresentatività politica era vista come fonte di legittimazione per la concreta gestione amministrativa. Per questo il Ministro, così come gli altri organi di governo delle amministrazioni territoriali, in quanto vertici amministrativi erano sia vertice politico (potere di indirizzo), sia vertice amministrativo (potere di gestione).

La riforma della pubblica amministrazione ha preso atto che quel tipo di organizzazione amministrativa portava ad una mortificazione della professionalità della dirigenza, sostanzialmente deresponsabilizzata a livello esterno e ridotta ad essere una qualificatissima attività di supporto istruttorio, dei responsabili del procedimento super specializzati. Si è, allora, fornita una nuova lettura degli articoli 97 e 98 della Costituzione, tendente a legittimare una separazione tra la funzione di indirizzo politico, libera nel fine, non soggetta a misurazioni di efficienza ma al solo confronto col consenso popolare e la funzione gestionale, questa sì da assoggettare a modalità di verifica di stampo anche privatistico dell'efficienza, efficacia ed economicità, oltre che della rispondenza agli obiettivi politici posti dalla compagine di governo.

Solo una simile lettura degli articoli 97 e 98 della Costituzione poteva far scaturire un nuovo ruolo ed una nuova responsabilità della dirigenza, intesa come organo di governo gestionale, dotato di un'autonomia spiccata proprio in quanto non legata ad una parte politica e dunque in grado, nel rispetto di un progetto amministrativo proprio degli organi di governo, di attuare politiche gestionali in modo imparziale per tutti a prescindere dallo schieramento politico di appartenenza.

Certo, un simile modello organizzativo della pubblica amministrazione, se si ritiene derivi dalla Costituzione, per essere contraddetto dovrebbe fare i conti proprio con la carta costituzionale. E reggerebbe alle censure di incostituzionalità solo in quanto non se ne dimostrasse la contrarietà, almeno nell'ottica della nuova lettura degli articoli 97 e 98 almeno dal D.lgs 29/1993 in poi.

Lasciando impregiudicata la questione, appare, comunque che l'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 sia quanto meno anomalo dal punto di vista costituzionale anche per un altro aspetto. Non solo perché riconnette la possibilità di deroga al principio di separazione ad un criterio tranciante non sorretto da una logica amministrativa, quale quello demografico (non tenendo nel dovuto conto che comuni con meno di 5.000 abitanti, se a particolare vocazione turistica, ad esempio, possono essere caratterizzati da una struttura organizzativa più simile a quella di comuni con popolazione di molto superiore, proprio per reggere i periodici incrementi della popolazione domiciliata).

Ma anche perché, in maniera poco compatibile al nuovo quadro costituzionale, riconnette la deroga al principio di separazione non allo statuto comunale, bensì al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, in quanto si stabilisce che gli enti con meno di 5.000 abitanti "possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 29 del 3 febbraio 1993 e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali".

Ora, appare evidente che l'assunzione da parte degli organi di governo di funzioni gestionali sempre che sia legittima dal punto di vista costituzionale) non dà luogo ad una disposizione meramente organizzativa. Trattandosi, infatti, di un'attribuzione di funzioni ordinariamente assegnate ad altri organi, la deroga appare incidere non tanto e non solo sull'organizzazione dell'ente, quanto proprio sul suo assetto istituzionale.

Infatti, attiene all'assetto dell'istituzione-comune l'attribuzione delle competenze, mentre attiene all'organizzazione la definizione dei soggetti che in concreto le esercitano.

Sempre più spesso si tende a confondere il regolamento di organizzazione o, comunque, la norma organizzativa, con la disciplina istituzionale. Ma la differenza tra una norma che si occupa dell'ordinamento e quella che disciplina l'organizzazione è profonda.

La prima stabilisce quali siano gli organi che impersonificano l'ente, dispone quali siano i fini generali che l'ente deve perseguire, attribuisce agli organi i poteri connessi al conseguimento di detti fini e, dunque, fissa le loro competenze, dal momento che la competenza è la misura delle potestà pubbliche assegnate dalla legge agli organi dell'amministrazione pubblica.

Stabilito, allora, che gli organi di governo esercitano funzioni di indirizzo e controllo, e quelli amministrativi competenze gestionali, spetta alla normativa organizzativa interna definire quanti siano gli organi amministrativi, come ripartire tra loro le varie funzioni assegnate dalla legge all'ente, in modo omogeneo e da garantire un'efficiente azione gestionale, come supportare i soggetti preposti alla direzione, come disciplinare le relazioni tra loro ed i rapporti con gli organi di governo, come specificare i flussi procedurali, la comunicazione interna, i processi lavorativi, i sistemi per agevolare l'accesso alle informazioni.

Istituire, allora, vuol dire far sorgere un soggetto, attribuirgli poteri e doveri, individuare gli organi attraverso i quali esprime le sue decisioni. Organizzare significa, invece, determinare le modalità con le quali gli organi già istituiti esercitano le proprie funzioni.

Attribuire le funzioni gestionali all'organo di governo, piuttosto che all'organo gestionale, a ben guardare, non è operazione organizzativa, ma architettura istituzionale.

Ammesso, allora, e non concesso che la legge ordinaria dello Stato possa consentire una deroga al principio di separazione, conforme agli articoli 97 e 98 della Costituzione, sarebbe apparso più corretto, in omaggio all'articolo 114 della Costituzione, che detto potere di deroga fosse assegnato allo statuto e non al regolamento di organizzazione. Solo il primo, infatti, svolge una funzione di disciplina dell'assetto dell'ente locale, che il regolamento, invece, non può esplicare.

 

 

(1) In Italia Oggi del 16 febbraio 2002, pagina 31, "Patto di stabilità, regole ad hoc".

(2)   G. Sciullo, intervento al convegno organizzato dalla Provincia di Verona, "Riforme costituzionali e ordinamento degli enti: effetti sulla normativa vigente", tenutosi l'11 febbraio 2002 a Verona.

(3)   Vedasi, parzialmente conforme a questa soluzione, L. Oliveri, "Prime riflessioni sulle influenze della riforma costituzionale sull'ordinamento degli enti locali.", in www.giust.it .

(4)   G. Sciullo, intervento cit.; L. Oliveri, op. cit.; M. A. Sandulli, Riforma Costituzionale e semplificazione normativa: brevi riflessioni, in Problemi del Federalismo, Milano, 2001, pag. 287 e ss..

(5)   C. A. Manfredi Selvaggi, Effetti del nuovo assetto costituzionale sull'ordinamento finanziario e contabile degli enti locali, in www.giust.it ; S. Mielli, E' possibile una lettura del nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni in chiave giuridica e non politica?, in www.giust.it ; sull'argomento, con posizioni opposte, L. Oliveri, L'ammissibilità di leggi dello Stato di "coordinamento e garanzia dell'unità dell'ordinamento" dopo la riforma della Costituzione – la legittimità costituzionale di leggi statali nelle materie riservate alla potestà legislativa regionale, in www.giust.it .

(6)   Così C. E. Gallo, Le fonti del diritto nell'ordinamento regionale nella prospettiva della revisione costituzionale, in Problemi del Federalismo cit., pag. 45, ove si sostiene che "va apprezzata la definizione della potestà legislativa esclusiva. […] La potestà legislativa spetta comunque alle regioni e da questa potestà di carattere generale vanno sottratte le materie attribuite allo Stato in modo esclusivo e i principi fissati dallo Stato nelle materie di legislazione concorrente". Per l'esclusività della potestà legislativa regionale è anche P. Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?, in Problemi del Federalismo cit., pag, 68.

(7)   Così L. Oliveri, L'ammissibilità di leggi dello Stato di "coordinamento e garanzia dell'unità dell'ordinamento" dopo la riforma della Costituzione – la legittimità costituzionale di leggi statali nelle materie riservate alla potestà legislativa regionale, cit.

(8)   G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I – IL sistema delle fonti del diritto, Torino, 1996, pag. 67; V. Crisafulli, Lezioni di diritto costitiuzionale, pag. 207.

(9)   R. Nobile, Piccoli comuni e responsabili dei servizi fra mostri giuridici ed innovazioni legislative: repetita non iuvant.