Sulla permanenza di un
ordinamento omogeneo degli enti locali
dopo la legge costituzionale 3/2001.
Nell'analizzare
il rapporto esistente tra le fonti del diritto fondato sulla novellazione della
Costituzione, non pochi interpreti, con specifico riferimento al sistema
giuridico degli enti locali, si chiedono se sia più possibile parlare di un
"ordinamento degli enti locali" determinato da leggi generali. Il
problema, a sua volta, si articola in altre questioni. Posto che un ordinamento
omogeneo sia ancora ammissibile, a quale ente spetta la potestà normativa,
Stato o regione? Ma se l'ordinamento omogeneo non è più in linea con la
Costituzione, allora occorre ammettere che gli statuti abbiano assunto potestà
ordinamentale piena ed esclusiva, sì da essere posti in relazione di competenza
e non di gerarchia con le leggi?
All'apparenza,
le soluzioni proponibili alle domande poste sopra sembrano tre. Una prima
risposta continua a vedere nella legge dello Stato l'unica fonte ordinamentale
locale. Una seconda afferma che l'ordinamento debba essere disciplinato in
combinato disposto tra legge dello Stato e legge regionale. Una terza, prende
atto che l'ordinamento degli enti locali, in realtà, non esiste, sicchè
ciascuno statuto è "ordinamento".
Passando
all'esame della prima possibile risposta, occorre verificarne le possibili
argomentazioni a sostegno.
Ordinamento
locale di competenza statale.
La
tesi incline a ritenere che l'ordinamento degli enti locali è materia di
competenza della legge dello Stato trova il suo fondamento nell'articolo 117,
comma 2, lettera p), della Costituzione. Detta norma, a mente della quale la
legge dello Stato disciplina gli organi e le funzioni dei comuni, andrebbe
interpretata in senso estensivo. La Costituzione, ovvero, avrebbe assegnato
espressamente alla legge dello Stato solo la disciplina degli organi e delle
funzioni, intendendo, tuttavia, con questo confermare alla legge statale la
potestà normativa (che, dunque, sarebbe esclusiva) relativa all'intera materia
dell'ordinamento locale.
Prima
di evidenziare le possibili critiche a questa impostazione, non si può fare a
meno di osservare che, di fatto, l'interpretazione in argomento sembra quella
privilegiata attualmente dal Parlamento e dal Governo.
Lo
dimostrano, intanto, i fatti. La legge 448/2001 è intervenuta in modo molto
pervasivo sull'ordinamento locale, ad esempio innovando radicalmente la materia
dei servizi pubblici locali ed estendendo la possibilità per i comuni fino a
5.000 abitanti di derogare al principio di separazione delle competenze tra
organi di governo ed organi amministrativi.
Lo
confermano, inoltre, le dichiarazioni anche dei componenti della compagine
governativa. Il sottosegretario agli interni, senatore Antonio D'Alì in merito
ai possibili profili di incostituzionalità della riforma dei servizi pubblici
locali ha affermato (1) che
"questi aspetti debbano essere ricompresi nella cosiddetta normativa di
principio che deve individuare le funzioni fondamentali degli enti locali e che
la riforma costituzionale riserva comunque allo Stato". Il sottosegretario
ha confermato, sempre nell'ambito della medesima dichiarazione, un orientamento
politico-interpretativo, che dovrebbe evidentemente essere ricondotto all'intero
Governo, in merito al problema della possibile regionalizzazione del rapporto di
lavoro dei dipendenti degli enti locali, sostenendo che "ci potranno essere
delle peculiarità regionali, ma nell'ambito di un quadro di principi che dovrà
essere necessariamente definito a livello statale".
Insomma,
nell'articolo 117, comma 2, lettera p), taluno intravede la riformulazione
dell'abrogato articolo 128 della Costituzione, il quale stabiliva che "le
provincie e i comuni sono enti autonomi nell'ambito dei principi fissati da
leggi generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni". Il
riferimento contenuto nell'articolo 117, comma 2, lettera p), proprio alle
funzioni legittimerebbe la legge dello Stato a fissare i principi generali
riguardanti tutto l'ordinamento locale. Dunque, l'ordinamento omogeneo locale
continua ad esistere, in funzione del permanere di una funzione della legge
dello Stato di determinare organi e funzioni, e, dunque, l'assetto istituzionale
e funzionale degli enti.
Si
tratta di un approccio interpretativo prudente, per non dire conservatore. Ma a
ben guardare non sembra possibile considerarlo in linea col significato della
riforma della Costituzione.
Analizzando
criticamente la tesi sin qui esposta, si può in primo luogo notare che se la
novella costituzionale avesse voluto assegnare allo Stato una potestà
legislativa piena, esclusiva e generale riguardo l'ordinamento locale, per il
tramite di una normativa di principi generali, non avrebbe certamente abrogato
l'articolo 128: sarebbe bastato sostituire il riferimento alle leggi della
Repubblica, con il richiamo alle leggi dello Stato (che nel nuovo assetto
istituzionale determinato dall'articolo 114 della Costituzione è uno degli enti
che compongono la Repubblica e non coincide con essa).
Dunque,
ragionando al contrario, se la legge 3/2001 ha abrogato l'articolo 128 della
Costituzione, inevitabilmente la categoria delle leggi generali poste a fissare
i principi delimitanti l'ambito di autonomia dell'ordinamento locale sì da
fissare, indirettamente, un ordinamento locale omogeneo deve ritenersi espunta
dalla novella.
Confrontando,
del resto, il testo dell'articolo 128, con quello dell'articolo 117, comma 2,
lettera p), si nota che il contenuto di quest'ultimo è certamente molto più
ristretto e settoriale. La legge dello Stato, in realtà, può disciplinare:
1)
gli organi di governo; è la legge dello Stato, pertanto, che li individua e,
lungo una linea di continuità normativa, ne definisce le competenze (o ne detta
i criteri di definizione);
2)
le funzioni: è la legge dello Stato a stabilire quali funzioni possano essere
esercitate dagli enti locali.
Quest'ultimo aspetto è da leggere in
connessione con gli articoli 118, comma 1, e 117, comma 5, ultimo periodo, della
Costituzione. Il primo prevede che le funzioni amministrative sono attribuite ai
comuni, salvo che per assicurarne l'esercizio unitario siano conferite a
province, città metropolitane, regioni e Stato. Il secondo prevede la simmetria
tra le funzioni conferite agli enti locali e la potestà regolamentare in ordine
alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento di dette funzioni.
Dunque, lo Stato conserva la potestà
legislativa in merito alle funzioni degli enti locali, ma non per fissare i
principi ordinamentali. L'assegnazione della richiamata potestà legislativa è
funzionale alla necessità di attribuire all'ente territoriale di massima
aggregazione della popolazione il compito di verificare quali tra le funzioni
amministrative, spettanti a titolo originario ai comuni, possano e debbano
essere loro sottratte, per essere assegnate ad enti territoriali più grandi, in
relazione ad esigenze di unitarietà di esercizio. Infatti, in realtà, poiché
l'articolo 118, comma 1, stabilisce che le funzioni amministrative sono sempre
dei comuni, la legge dello Stato può solo specificare dette funzioni, o
sottrarle ai comuni, per attribuirle agli enti territoriali di maggiori
dimensioni, non certo conferirle.
Detta funzione specificativa o di
"sottrazione" di ambiti regolamentari non ha nulla in comune con una
legislazione generale di principio, quale quella una volta prevista
dall'articolo 128 della Costituzione, la cui abrogazione non può essere
considerata come inutiliter data.
Se così stanno le cose, come in realtà
sembra, allora la legge dello Stato non ha più la funzione di dettare i
principi generali riguardanti l'intera materia dell'ordinamento locale.
D'altra parte, si è correttamente
osservato (2) che se la
Costituzione avesse voluto attribuire alla legge dello Stato la potestà di
disciplinare l'ordinamento locale, lo avrebbe disposto espressamente. Infatti,
quando la novella costituzionale si è riferita all'ordinamento, lo ha fatto
esplicitamente, come ad esempio nella lettera g) dell'articolo 117, nella quale
assegna manifestamente alla potestà legislativa dello Stato l'ordinamento dello
Stato medesimo. Nel caso degli enti locali, invece, manca del tutto
un'assegnazione chiara alla legge dello Stato di una competenza normativa
generale, simile a quella dell'abrogato articolo 128 della Costituzione.
Ordinamento
locale ripartito tra legge statale e regionale.
La seconda soluzione ipotizzabile prevede
una ripartizione delle competenze tra legge dello Stato e legge regionale (3).
Questa interpretazione si fonda sulla
presa d'atto che, come visto sopra, la legge dello Stato può intervenire solo
nella materia dell'individuazione degli organi di governo locale e delle loro
competenze, nonché nella specificazione o "sottrazione" delle
funzioni amministrative dei comuni (e relativo conferimento ad enti
territorialmente di maggiori dimensioni). Sicchè, la restante parte della
disciplina ordinamentale generale sarebbe di competenza della legislazione
regionale, la quale avrebbe, dunque, potestà nelle seguenti materie:
1)
disposizioni generali relative alle fonti dell'autonomia locale ed i loro
rapporti con la legge e la Costituzione;
2)
diritto d'accesso e la partecipazione;
3)
soggetti e organizzazione delle funzioni da essi svolte;
4)
organizzazione e personale, nel rispetto delle disposizioni del Codice civile,
che non può essere soggetto a modifiche o deroghe da parte della legge
regionale e dei principi in materia desumibili dalla Costituzione;
5)
segretari comunali e provinciali;
6)
dirigenza locale;
7)
servizi pubblici locali, con la specificazione che relativamente alla
produzione, trasporto e distribuzione a livello nazionale dell'energia, la
potestà legislativa regionale è di tipo concorrente;
8)
controlli non tanto sugli atti, la cui disciplina appare preclusa alla legge
regionale dall'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione, quanto sugli
organi;
9)
ordinamento finanziario e contabile.
Come
sottolineano parecchi interpreti (4)
questa interpretazione porta necessariamente a concludere per una frammentazione
estrema della disciplina normativa, con la conseguenza di una difficile
configurazione dei confini della potestà normativa delle leggi. V'è, infatti,
il rischio di un'interferenza notevole e continua tra le leggi dello Stato e
quelle delle regioni, come proprio l'articolo 35 della legge 448/2001 sta a
testimoniare.
Rapporti
tra legge dello Stato e leggi regionali.
Pare
opportuno, a questo punto, allargare l'analisi alla verifica dei reciproci
rapporti tra legge dello Stato e legge regionale. Infatti, il quadro della
ripartizione normativa dell'ordinamento locale tra legge dello Stato e legge
regionale risulta tanto più complesso e frammentario, quanto maggiori siano le
interferenze tra le citate norme.
Ora,
appare del tutto evidente che il maggiore grado di interferenza possibile si
determina se si ammette (5) che le
leggi dello Stato possano dettare disposizioni normative anche nell'ambito delle
materie non espressamente richiamate nei commi 2 e 3 dell'articolo 117 della
Costituzione, ovvero nell'ambito della potestà legislativa di tipo generale e
residuale delle regioni.
Alcuni
autori sostengono che detta potestà legislativa generale e residuale sia da
intendere come potestà legislativa concorrente "pura", in
contrapposizione alla potestà legislativa concorrente "tipizzata",
prevista dal comma 3 del citato articolo 117.
Il
rapporto esistente tra legge statale e regionale poste in una relazione di
concorrenzialità pura viene ricostruito nel senso che sia lo Stato, sia la
regione, nelle materie non elencate dall'articolo 117, possono legiferare in
merito. Il primato legislativo spetta all'ente che legifera per primo, ma, in
ogni caso la legge dello Stato cederebbe rispetto alla disciplina regionale. La
"cedevolezza" della legge statale rispetto a quella regionale sarebbe
la chiave per dare razionalità al sistema.
Detta
ricostruzione viene considerata la migliore, per evitare possibili vuoti
normativi all'ordinamento giuridico, nel caso di inerzia normativa alle regioni.
Il
fondamento giuridico dell'interpretazione qui richiamata deriverebbe dalla
constatazione che l'ultimo periodo del comma 3 dell'articolo 117 della
Costituzione non assegna espressamente alle regioni una potestà legislativa
esclusiva. Tanto è vero che il disegno di legge di ulteriore riforma della
Costituzione, invece, prevede espressamente una potestà legislativa regionale
esclusiva: ciò significa che se il legislatore costituzionale sente il bisogno,
con una nuova norma, di chiarire che la potestà legislativa regionale (futura)
sarà esclusiva, quella attuale non lo è: dunque è una potestà legislativa
concorrente non tipizzata.
Ora,
questa chiave interpretativa non appare del tutto persuasiva. In primo luogo,
perché non si capirebbe, anche in questo caso, il senso di un intervento di
riforma che, evidentemente, risulterebbe molto meno profondo ed innovatore, nel
momento in cui si ammettesse che lo Stato concorre con le regioni alla
produzione normativa generale e residuale.
In
sostanza, la tesi sopra sintetizzata giunge a negare uno degli assunti
fondamentali alla base della riforma, ovvero l'inversione della titolarità
della potestà legislativa generale. Nel sistema costituzionale antecedente alla
legge 3/2001, la potestà generale e residuale era dello Stato. Alle regioni a
statuto ordinario spettava una potestà legislativa concorrente, solo nelle
materie espressamente elencate dall'articolo 117. Detta elencazione aveva lo
scopo di sottrarre dalla generalità delle materie oggetto della potestà
legislativa statale quelle sulle quali le regioni potevano esercitare la propria
potestà legislativa, nel rispetto dei principi e dei limiti imposti nel
precedente sistema. L'enumerazione, dunque, delle materie aveva lo scopo di
chiarire quando la legge dello Stato non era dotata di una potestà generale ed
esclusiva.
Non
pare che nella nuova formulazione il criterio dell'enumerazione delle materie
riservate alla potestà esclusiva e concorrente dello Stato assuma una funzione
differente (6) da quella rivestita
nel precedente regime.
Le
argomentazioni che suffragano l'esistenza di una potestà legislativa regionale
concorrente pura, a ben vedere, non reggono alle critiche che si possono
contrapporre.
Con
riferimento alla mancanza di una espressa enunciazione della potestà
legislativa regionale come esclusiva. Se è vero che l'articolo 117, comma 3,
non dispone espressamente che la potestà legislativa regionale sia esclusiva,
è altrettanto vero che detta norma non prevede espressamente nemmeno che detta
potestà sia concorrente con quella dello Stato. Pertanto, questa argomentazione
non appare persuasiva, in quanto carente della caratteristica di prevalere, su
un piano ermeneutico, rispetto a quella diametralmente opposta. Per altro, si può
osservare che "sebbene la novella costituzionale non abbia in via
espressa limitato le competenze della potestà dello Stato, tuttavia abbia
implicitamente, ma abbastanza chiaramente, previsto una <riserva> di
competenze: in altre parole, la novella dell'articolo 117 della Costituzione
nell'elencare, al comma 2, le materie rientranti nella potestà esclusiva dello
Stato – che in quanto tale non può essere "invasa" da quella
regionale – ha provveduto, al comma 3, a chiarire che queste materie sono
espressamente riservate allo Stato. Pertanto, a contrario, su tutte le materie
che non sono coperte da questa riserva la potestà legislativa spetta, anch'essa
in via riservata e, dunque, esclusiva, alle regioni. Il combinato disposto, in
sostanza, dei commi 2 e 3 dell'articolo 117 ha posto in essere quella doppia
riserva di assegnazione delle materie, che caratterizza tipicamente il rapporto
di competenza tra fonti" (7).
Con
riferimento alla necessità di salvaguardare l'ordinamento da vuoti normativi.
L'impostazione del rapporto tra leggi dello Stato e leggi regionali, nelle
materie non enumerate dall'articolo 117, come di concorrenza pura può essere
utile solo nella fase di trapasso dal precedente all'attuale regime, per
significare che le leggi dello Stato vigenti non perdono, evidentemente, la loro
efficacia cogente per il semplice fatto che adesso la potestà legislativa
spetta alle regioni. In tal modo, dunque, si garantisce che non si creino vuoti
normativi. Ma, in realtà, a tale fine non occorre nemmeno configurare il
rapporto tra leggi dello Stato e leggi regionali come di concorrenza pura. E'
chiaro che nel passaggio da un regime delle competenze legislative all'altro le
leggi dello Stato dispiegano tutti i loro effetti, finchè le regioni non
intervengano con proprie norme. La ripartizione delle competenze normative tra
Stato e regioni e l'incostituzionalità della violazione della competenza
(sanzionabile mediante la procedura di cui all'articolo 127) riguardano le leggi
successive all'entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001, non quelle
precedenti. La tutela costituzionale di cui all'articolo 127 della Costituzione
non riguarda, infatti l’attribuzione della competenza medesima, ma il suo
esercizio. Dunque, scatta solo dopo (e non prima) che la Costituzione abbia
abilitato la regione ad esercitare una certa competenza normativa. Sicchè
l'incostituzionalità delle leggi statali, per violazione della competenza
esclusiva delle regioni, riguarda solo le leggi successive all'8 novembre 2001,
giammai quelle precedenti.
Ciò,
allora, non consente di ritenere che interpretare la potestà legislativa
generale residuale delle leggi regionali come esclusiva determini rischi di
vuoti normativi. L'ordinamento, se una regione rimane inerte, troverà la fonte
della disciplina di una certa materia nelle leggi dello Stato ancora vigenti e,
se fosse necessario, nell'interpretazione analogica.
Con
riferimento alla previsione della potestà legislativa regionale esclusiva
espressa nel nuovo disegno di legge di riforma della Costituzione, della
cosiddetta devolution. Detta argomentazione non appare di per sé
sufficiente, in quanto, come visto in precedenza, l'articolo 117 della
Costituzione pare possa e debba già nell'attuale formulazione essere
interpretato nel senso che la potestà generale residuale delle regioni sia
esclusiva. Pertanto, è possibile sostenere che l'espressa menzione, nel nuovo
disegno di legge, della caratteristica di esclusività della potestà
legislativa regionale abbia solo valore di chiarimento interpretativo, e non di
introduzione ex novo di una caratteristica prima non posseduta dalle
leggi.
Per
altro, occorre sottolineare che se si ammettesse un rapporto di concorrenzialità
pura tra leggi dello Stato e leggi della regione, in realtà non si potrebbe più
determinare con un criterio interpretativo chiaro le relazioni intercorrenti tra
dette leggi. Non si tratterebbe certo di gerarchia, in quanto la concorrenzialità
pura, forse meglio definibile come alternatività, consentirebbe allo Stato e
alle regioni di disciplinare la medesima materia con medesima forza normativa.
La cedevolezza della norma statale rispetto a quella regionale non basterebbe a
specificare meglio la relazione. Starebbe solo ad indicare che la legge statale
dovrebbe cedere necessariamente il passo ad una successiva legge regionale, il
che accade lo stesso tra norme di pari efficacia nella gerarchia delle fonti, in
applicazione del principio della successione nel tempo. Per altro, la
cedevolezza sarebbe soltanto apparentemente un criterio di supremazia della
legge regionale rispetto a quella statale. Infatti, la concorrenzialità pura
implica che lo Stato possa in qualsiasi momento reintervenire su una materia
nella quale aveva emanato una legge, poi superata da una successiva legge
regionale, con una ulteriore legge statale.
L'esito
finale sarebbe una ancora maggiore accentuata frammentazione dell'ordinamento
giuridico ed una sostanziale incertezza del diritto, soprattutto se il
susseguirsi tra leggi statali e regionali non fosse sostenuto da abrogazioni
espresse dell'intera disciplina precedente. Altrimenti, il cittadino
rischierebbe di trovarsi di fronte ad un irrisolvibile puzzle normativo,
formato da più fonti di più enti, dotate di medesima potestà e forza.
Per
altro, la ricostruzione della relazione tra leggi statali e regionali come
concorrenzialità pura, oltre ad eslcudere un rapporto in termini di
concorrenza, impedisce anche ricostruzione del rapporto in termini di
competenza. Infatti, il criterio della competenza richiede necessariamente la
"riserva", cioè l'impedimento assoluto che una norma possa
travalicare i propri confini e disciplinare le materie assegnate ad un'altra
fonte.
Ma
ciò apparirebbe contrario ad una razionale ricostruzione del rapporto tra legge
dello Stato e legge della regione, che va necessariamente ricostruito in termini
di competenza, laddove non sia inquadrato nell'ambito della potestà legislativa
concorrente, non fosse altro perché l'articolo 127 della Costituzione
disciplina una procedura giurisdizionale di fronte alla Consulta per garantire
sia la legge statale, sia quella regionale, quando vi siano invasioni reciproche
di competenza. Allora, se così è, non può essere contestato che la potestà
legislativa residuale delle regioni vada configurata come potestà spettante
alla competenza delle regioni, competenza che deve essere necessariamente
esclusiva, in quanto tutelabile davanti alla Corte costituzionale. A questo
proposito, bisogna ricordare che nel precedente regime le regioni non
disponevano di un simile strumento di tutela delle proprie leggi, proprio perché
non dotate di una potestà legislativa esclusiva.
Se
così stanno le cose, allora, il quadro normativo di un ordinamento degli enti
locali composto da disposizioni legislative dello Stato limitate alla sola
materia di disciplina degli organi di governo e di specificazione delle
funzioni, nonché da disposizioni normative regionali riguardanti tutte le altre
materie (ferma restando la problematicità posta da competenze statali esclusive
di tipo "trasversale" come la tutela della concorrenza), appare
maggiormente conforme alla riforma costituzionale e meno complesso, anche se
certamente di difficile ricostruzione.
L'inesistenza
di un ordinamento generale degli enti locale.
Una
terza lettura proponibile nega che, in realtà, la materia dell'ordinamento
degli enti locali rientri nelle competenze esclusive o concorrenti della legge
dello Stato, così come nella legislazione concorrente o esclusiva delle
regioni. In realtà, potrebbe non esservi più, proprio perché è stato
abrogato l'articolo 128 della Costituzione, la necessità di un ordinamento
degli enti locali disciplinato da norme di principio.
Pertanto,
la disciplina ordinamentale, ad eccezione della disciplina degli organi e delle
funzioni, rientrerebbe integralmente nella competenza normativa staturaria. In
tal modo, si darebbe contenuto di valore concreto alla costituzionalizzazione
della fonte statuto, scaturente dall'articolo 114, comma 2, della Costituzione.
Gli
statuti, infatti, sarebbero la fonte non di un ordinamento degli enti locali, ma
dei tanti ordinamenti comunali, provinciali, delle unioni dei comuni, delle città
metropolitane, delle comunità montane, dei consorzi, che compongono, in mille
sfaccettature, l'insieme delle amministrazioni locali.
Dunque,
lo statuto, per questa strada, assumerebbe, finalmente, un vero ruolo di fonte
dell'autonomia locale, posto, per altro, in piena relazione di competenza e non
di gerarchia con le leggi dello Stato e delle regioni. Queste ultime, in realtà,
sarebbero, allora, prive di qualsiasi competenza legislativa in materia di enti
locali. La composizione dell'ordinamento locale sarebbe, quindi la risultante
delle leggi statali sulla determinazione delle competenze degli organi di
governo e delle funzioni, e delle disposizioni statutarie per tutte le restanti
materie.
La
testi su esposta appare molto suggestiva e potrebbe, in realtà, divenire un
punto di approdo di un'ulteriore riforma più marcatamente autonomista.
Ma
in realtà, essa non appare completamente persuasiva. Intanto, essa non può
certamente configurarsi come meno problematica della tesi di cui al precedente
paragrafo, tendente a considerare l'ordinamento locale come composto da leggi
dello Stato e leggi regionali. Se quella tesi si espone alla critica
dell'eccessiva frammentazione normativa e della difficoltà interpretativa, a
maggio ragione e con ben altre proporzioni lo sarebbe una tesi che nega
l'esistenza di un ordinamento locale e rilasci pressoché ai soli statuti la
disciplina dell'ordinamento locale. La frammentazione sarebbe tale da trovarsi
di fronte a decine di migliaia di fonti esclusive dei diversi ordinamenti
locali.
Ma,
allora, a questo punto, a quale fonte spetterebbe la disciplina di una materia
quale quella dei servizi pubblici locali? Allo statuto locale? Appare difficile
sostenerlo, considerando che la gestione dei servizi pubblici locali da tempo,
per legge, è considerata appartenente ad ambiti più vasti di quelli comunali.
Tutta la normativa più recente mira alla creazione di bacini di utenza
intercomunali ed alla costituzione di enti a partecipazione pluricomunale.
Pertanto,
la normativa statutaria non appare idonea di per sé ad una simile disciplina.
Lo stesso dicasi per l'ordinamento del personale.
Allora,
per superare le evidentissime difficoltà normative, si sarebbe portati ad
attrarre quanto più possibile la disciplina delle materie comunque connesse con
l'ordinamento locale verso la fonte legislativa dello Stato, quanto meno per
fini di coordinamento. Col rischio che le norme legislative dello Stato si
evolvano sempre più verso interventi più di disciplina concreta che non di
fissazione di principi.
L'esaltazione
autonomista sarebbe entro breve tempo vanificata.
Ma
un'altra considerazione appare molto più decisiva delle conclusioni cui si è
fin qui giunti, per negare che l'ordinamento locale sia riconnesso
esclusivamente all'endiadi leggi dello Stato di cui all'articolo 117, comma 2,
lettera p) e statuti.
Perché
lo statuto degli enti locali possa essere realmente considerato fonte
dell'ordinamento locale, posto in una relazione di competenza con le leggi dello
Stato (ma anche delle regioni) occorrerebbe rinvenire nel testo della
Costituzione la riserva di competenza di cui parla la dottrina classica (8).
Ma ad uno sguardo attento, l'attuale testo della Costituzione non riserva alcuna
specifica materia agli statuti locali e si limita esclusivamente a prevedere lo
statuto quale fonte dell'autonomia, senza attribuirgli in via né concorrente né
esclusiva determinate o determinabili materie di disciplina normativa.
L'articolo
123 della Costituzione, invece, quando disciplina gli statuti delle regioni,
dispone espressamente che essi hanno la competenza di determinare la forma di
governo ed i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento delle
regioni. In sostanza, l'assetto istituzionale ed organizzativo delle regioni è
rimesso integralmente, per espressa riserva costituzionale, alla potestà
normativa degli statuti regionali.
Simile
riserva, invece, non esiste per gli statuti locali. Sicchè il loro ambito
normativo dovrà continuare ad essere determinato dalla legge ordinaria, come
nell'attuale regime. Legge ordinaria che sarà dello Stato con riferimento alle
elezioni, alla disciplina degli organi di governo e di specificazione delle
funzioni; della regione per tutte le restanti materie attinenti all'autonomia
locale.
Lo
statuto come composizione unitaria della frammentazione normativa tra leggi
statali e leggi regionali.
E',
tuttavia, possibile tentare di impostare una quarta ricostruzione del quadro
normativo che compone l'ordinamento locale.
Detta
ricostruzione ammette che un ordinamento locale omogeneo debba esistere e che
debba necessariamente essere fissato dalle leggi dello Stato e delle regioni,
ciascuna per le proprie materie loro riservate in via esclusiva dalla
Costituzione.
Tuttavia,
il rilievo costituzionale assunto dagli statuti locali dovrebbe far ritenere che
qualsiasi disposizione legislativa relativa alla materia dell'ordinamento locale
dovrebbe necessariamente configurarsi come fissazione di principi e mai come
disposizioni di regolamentazione diretta della materia.
Occorre,
in altre parole, una legislazione statale e regionale assolutamente agile,
leggera, composta di pochissime norme, tutte enuncianti in modo chiaro principi
normativi e, soprattutto, le possibilità e modalità di eventuali deroghe da
parte della normativa locale.
La
restante parte dell'ordinamento, fatta salva questa comune fissazione di
principi che assicurerebbe il persistere di un ordinamento omogeneo, dovrebbe
spettare esclusivamente alla potestà normativa statutaria.
Per
esemplificare, la legge dello Stato nel disciplinare gli organi di governo non
dovrebbe, come attualmente il D.lgs 267/2000, determinare in maniera esaustiva
l'elenco delle competenze del consiglio, del sindaco, della giunta e della
dirigenza.
Dovrebbe
limitarsi, invece, a dettare norme di principio come, ad esempio, la previsione
di un organo collegiale rappresentativo della cittadinanza, di un organo di
governo ristretto preposto alla direzione operativa, di un organo di governo
monocratico dotato del potere di stabilire l'indirizzo politico-amministrativo,
di sovraintendere all'esercizio delle funzioni amministrative e di avvalersi
della collaborazione dell'organo collegiale di direzione operativa. Nonché di
un apparato organizzativo, dotato del potere di attendere alle funzioni
gestionali non rientrante in quelle di governo, rinvenibili in ulteriori norme
di principio generali, come l'articolo 4 del D.lgs 165/2001, specificate dallo
statuto.
Simili
norme darebbero larghissimo spazio ad un ordinamento differenziato ma coerente,
omogeneo ma autonomo al tempo stesso, costruito in misure, forme, relazioni
differenti da ciascun ente in base alla qualità e quantità dei servizi da
rendere alla propria popolazione.
Lo
statuto, allora, dovrebbe assumere la dimensione di norma "lunga" e
completa, al posto del D.lgs 267/2000, che per la sua analiticità di dettaglio,
appare certamente non in linea con il modello di autonomia derivante dalla
riforma costituzionale.
L'anomalia
costituzionale dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, come modificato
dall'articolo 29, comma 4, della legge 488/2001.
A
questo punto dell'analisi, non pare inutile una riflessione sull'articolo 53,
comma 23, della legge 388/2000, come novellato dall'articolo 29, comma 4, della
legge 448/2001. Già accorta dottrina (9)
ha segnalato il fumus di incostituzionalità che caratterizza detta
norma, derivante dal suo possibile contrasto con gli articoli 97 e 98, sui quali
si fonda il principio di separazione delle competenze degli organi di governo da
quelle degli organi gestionali, che non sarebbe altro che la concreta attuazione
dei principi di buon andamento ed imparzialità tratti dalle citate disposizioni
costituzionali.
Ora,
l'incostituzionalità dell'articolo 53, comma 23, della legge 388/2000 per
violazione ai suddetti principi pur essendo fortemente sostenibile, non è
certamente dimostrabile in modo assoluto. Infatti, fino all'entrata in vigore
del D.lgs 29/1993 nessuno ha mai dubitato della costituzionalità
dell'assegnazione, da parte della legge, delle funzioni di gestione agli organi
di governo. Il principio di separazione è, evidentemente, frutto di una lettura
evolutiva degli articoli 97 e 98 (ma anche 95) della Costituzione. Nella
precedente sensibilità interpretativa, la rappresentatività politica era vista
come fonte di legittimazione per la concreta gestione amministrativa. Per questo
il Ministro, così come gli altri organi di governo delle amministrazioni
territoriali, in quanto vertici amministrativi erano sia vertice politico
(potere di indirizzo), sia vertice amministrativo (potere di gestione).
La
riforma della pubblica amministrazione ha preso atto che quel tipo di
organizzazione amministrativa portava ad una mortificazione della professionalità
della dirigenza, sostanzialmente deresponsabilizzata a livello esterno e ridotta
ad essere una qualificatissima attività di supporto istruttorio, dei
responsabili del procedimento super specializzati. Si è, allora, fornita una
nuova lettura degli articoli 97 e 98 della Costituzione, tendente a legittimare
una separazione tra la funzione di indirizzo politico, libera nel fine, non
soggetta a misurazioni di efficienza ma al solo confronto col consenso popolare
e la funzione gestionale, questa sì da assoggettare a modalità di verifica di
stampo anche privatistico dell'efficienza, efficacia ed economicità, oltre che
della rispondenza agli obiettivi politici posti dalla compagine di governo.
Solo
una simile lettura degli articoli 97 e 98 della Costituzione poteva far
scaturire un nuovo ruolo ed una nuova responsabilità della dirigenza, intesa
come organo di governo gestionale, dotato di un'autonomia spiccata proprio in
quanto non legata ad una parte politica e dunque in grado, nel rispetto di un
progetto amministrativo proprio degli organi di governo, di attuare politiche
gestionali in modo imparziale per tutti a prescindere dallo schieramento
politico di appartenenza.
Certo,
un simile modello organizzativo della pubblica amministrazione, se si ritiene
derivi dalla Costituzione, per essere contraddetto dovrebbe fare i conti proprio
con la carta costituzionale. E reggerebbe alle censure di incostituzionalità
solo in quanto non se ne dimostrasse la contrarietà, almeno nell'ottica della
nuova lettura degli articoli 97 e 98 almeno dal D.lgs 29/1993 in poi.
Lasciando
impregiudicata la questione, appare, comunque che l'articolo 53, comma 23, della
legge 388/2000 sia quanto meno anomalo dal punto di vista costituzionale anche
per un altro aspetto. Non solo perché riconnette la possibilità di deroga al
principio di separazione ad un criterio tranciante non sorretto da una logica
amministrativa, quale quello demografico (non tenendo nel dovuto conto che
comuni con meno di 5.000 abitanti, se a particolare vocazione turistica, ad
esempio, possono essere caratterizzati da una struttura organizzativa più
simile a quella di comuni con popolazione di molto superiore, proprio per
reggere i periodici incrementi della popolazione domiciliata).
Ma
anche perché, in maniera poco compatibile al nuovo quadro costituzionale,
riconnette la deroga al principio di separazione non allo statuto comunale, bensì
al regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi, in quanto si
stabilisce che gli enti con meno di 5.000 abitanti "possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto
disposto all'articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 29 del 3
febbraio 1993 e all'articolo 107 del predetto testo unico delle leggi
sull'ordinamento degli enti locali".
Ora,
appare evidente che l'assunzione da parte degli organi di governo di funzioni
gestionali sempre che sia legittima dal punto di vista costituzionale) non dà
luogo ad una disposizione meramente organizzativa. Trattandosi, infatti, di
un'attribuzione di funzioni ordinariamente assegnate ad altri organi, la deroga
appare incidere non tanto e non solo sull'organizzazione dell'ente, quanto
proprio sul suo assetto istituzionale.
Infatti,
attiene all'assetto dell'istituzione-comune l'attribuzione delle competenze,
mentre attiene all'organizzazione la definizione dei soggetti che in concreto le
esercitano.
Sempre
più spesso si tende a confondere il regolamento di organizzazione o, comunque,
la norma organizzativa, con la disciplina istituzionale. Ma la differenza tra
una norma che si occupa dell'ordinamento e quella che disciplina
l'organizzazione è profonda.
La
prima stabilisce quali siano gli organi che impersonificano l'ente, dispone
quali siano i fini generali che l'ente deve perseguire, attribuisce agli organi
i poteri connessi al conseguimento di detti fini e, dunque, fissa le loro
competenze, dal momento che la competenza è la misura delle potestà pubbliche
assegnate dalla legge agli organi dell'amministrazione pubblica.
Stabilito,
allora, che gli organi di governo esercitano funzioni di indirizzo e controllo,
e quelli amministrativi competenze gestionali, spetta alla normativa
organizzativa interna definire quanti siano gli organi amministrativi, come
ripartire tra loro le varie funzioni assegnate dalla legge all'ente, in modo
omogeneo e da garantire un'efficiente azione gestionale, come supportare i
soggetti preposti alla direzione, come disciplinare le relazioni tra loro ed i
rapporti con gli organi di governo, come specificare i flussi procedurali, la
comunicazione interna, i processi lavorativi, i sistemi per agevolare l'accesso
alle informazioni.
Istituire,
allora, vuol dire far sorgere un soggetto, attribuirgli poteri e doveri,
individuare gli organi attraverso i quali esprime le sue decisioni. Organizzare
significa, invece, determinare le modalità con le quali gli organi già
istituiti esercitano le proprie funzioni.
Attribuire
le funzioni gestionali all'organo di governo, piuttosto che all'organo
gestionale, a ben guardare, non è operazione organizzativa, ma architettura
istituzionale.
Ammesso,
allora, e non concesso che la legge ordinaria dello Stato possa consentire una
deroga al principio di separazione, conforme agli articoli 97 e 98 della
Costituzione, sarebbe apparso più corretto, in omaggio all'articolo 114 della
Costituzione, che detto potere di deroga fosse assegnato allo statuto e non al
regolamento di organizzazione. Solo il primo, infatti, svolge una funzione di
disciplina dell'assetto dell'ente locale, che il regolamento, invece, non può
esplicare.
(1)
In Italia Oggi del 16 febbraio 2002, pagina 31, "Patto di stabilità,
regole ad hoc".
(2)
G. Sciullo, intervento al convegno organizzato dalla Provincia di Verona,
"Riforme costituzionali e ordinamento degli enti: effetti sulla normativa
vigente", tenutosi l'11 febbraio 2002 a Verona.
(3)
Vedasi, parzialmente conforme a questa soluzione, L. Oliveri, "Prime
riflessioni sulle influenze della riforma costituzionale sull'ordinamento degli
enti locali.", in www.giust.it
.
(4)
G. Sciullo, intervento cit.; L. Oliveri, op. cit.; M. A. Sandulli, Riforma
Costituzionale e semplificazione normativa: brevi riflessioni, in Problemi del
Federalismo, Milano, 2001, pag. 287 e ss..
(5)
C. A. Manfredi Selvaggi, Effetti
del nuovo assetto costituzionale sull'ordinamento finanziario e contabile degli
enti locali, in www.giust.it ; S.
Mielli, E'
possibile una lettura del nuovo riparto di competenze tra Stato e Regioni in
chiave giuridica e non politica?, in www.giust.it
; sull'argomento, con posizioni opposte, L. Oliveri, L'ammissibilità
di leggi dello Stato di "coordinamento e garanzia dell'unità
dell'ordinamento" dopo la riforma della Costituzione – la
legittimità costituzionale di leggi statali nelle materie riservate alla potestà
legislativa regionale, in www.giust.it .
(6)
Così C. E. Gallo, Le fonti del diritto nell'ordinamento regionale nella
prospettiva della revisione costituzionale, in Problemi del Federalismo cit.,
pag. 45, ove si sostiene che "va apprezzata la definizione della potestà
legislativa esclusiva. […] La potestà legislativa spetta comunque alle
regioni e da questa potestà di carattere generale vanno sottratte le materie
attribuite allo Stato in modo esclusivo e i principi fissati dallo Stato nelle
materie di legislazione concorrente". Per l'esclusività della potestà
legislativa regionale è anche P. Bilancia, Verso un federalismo cooperativo?,
in Problemi del Federalismo cit., pag, 68.
(7)
Così L. Oliveri, L'ammissibilità
di leggi dello Stato di "coordinamento e garanzia dell'unità
dell'ordinamento" dopo la riforma della Costituzione – la
legittimità costituzionale di leggi statali nelle materie riservate alla potestà
legislativa regionale, cit.
(8)
G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, vol. I – IL sistema delle
fonti del diritto, Torino, 1996, pag. 67; V. Crisafulli, Lezioni di diritto
costitiuzionale, pag. 207.
(9)
R. Nobile, Piccoli comuni e responsabili dei servizi fra mostri giuridici ed
innovazioni legislative: repetita non iuvant.