Primi elementi di lettura della riforma del titolo V della Costituzione

di Gian Candido De Martin

1. I principali passi avanti

La recentissima entrata in vigore della l.c. n. 3/01, che contiene la riforma costituzionale confermata dal referendum del 7 ottobre scorso, pone indubbiamente una serie di questioni interpretative, spesso assai complesse e di non facile soluzione, rispetto alle quali tuttavia appare opportuno cercare di privilegiare, per quanto possibile, una lettura "utile" delle nuove norme, evitando che prenda il sopravvento una logica eccessivamente problematica, se non addirittura una propensione ad un blocco della riforma e comunque ad un rinvio applicativo di molte delle innovazioni intervenute.

Premetto che sono fuori discussione – come si era già ampiamente evidenziato nel convegno del Centro Bachelet della Luiss del 9 gennaio 2001 (v. atti a cura di G. Berti e G.C. De Martin, Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, Milano, Giuffrè, 2001) - sia una serie di imperfezioni tecniche del nuovo Titolo V – imperfezioni che sono peraltro ricorrenti, specie quando le scelte legislative sono frutto di faticose mediazioni – sia l’esistenza di alcune "lacune" (tuttavia preordinate) su alcune scelte che dovrebbero necessariamente accompagnare un disegno organico di effettivo riassetto del sistema statuale in chiave autonomistica, per sviluppare organicamente il principio fondamentale già presente nell’articolo 5 della Costituzione vigente. Soprattutto mancano alcuni importanti tasselli su cui il dibattito riformatore non è riuscito a registrare nella XIII legislatura un sufficiente consenso, quali quelli sul riassetto del Parlamento con una Camera delle autonomie, su un più ampio accesso alla Corte costituzionale anche da parte delle autonomie locali e su strutture adeguate di raccordo e di "dialogo" tra centro e periferia.

Ciò nonostante, il nuovo testo rappresenta certamente un concreto passo avanti per costruire gradualmente una sorta di via italiana al federalismo, dopo tanti anni di dibattito su riforme costituzionali volte a rafforzare le autonomie regionali e locali (senza dover ricominciare da capo, con una sorta di "fatica di Sisifo", in attesa di riuscire a dar vita ad una riforma maggiormente perfezionata e soddisfacente).

Senza entrare in puntuali dettagli tecnici, mi limito qui a sintetizzare alcuni elementi essenziali di carattere generale che possono aiutare a comprendere le potenzialità positive della riforma, che ha sviluppato in modo certamente più appropriato (rispetto al precedente Titolo V) il significato del principio fondamentale dell’art. 5 della Costituzione, che al riconoscimento del policentrismo del sistema statuale, fondato su una serie di autonomie di diverso livello territoriale (ma di pari dignità istituzionale), abbina una impostazione sostanzialmente ispirata alla ratio della sussidiarietà (specie in senso verticale), ora sancita esplicitamente sia a livello comunitario che nazionale.

A.      Di massima si consolidano e "costituzionalizzano", rendendole quindi sostanzialmente irreversibili, innovazioni assai significative previste dalle riforme amministrative dell’ultimo decennio (in particolare quelle realizzate o avviate in base alla l. 59/97), che stanno potenziando in modo consistente – anche se con vari ritardi attuativi, specie da parte delle regioni - le autonomie regionali, locali e funzionali in base anzitutto al principio di sussidiarietà, ossia rovesciando la prospettiva nell’assetto delle funzioni pubbliche e prevedendo per i livelli più alti solo ciò che non possono gestire quelli più vicini ai cittadini: si fissano quindi dei punti fermi che possono evitare i rischi di ripensamenti e di neocentralismi, sempre in agguato.

B.      Si supera (finalmente) l’equivoco del precedente testo costituzionale sul parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative delle regioni, che ha di fatto finora determinato una sottovalutazione del possibile (se non preferibile) ruolo di comuni, province e enti funzionali locali (a parte ovviamente il possibile ruolo delle autonomie sociali, da valorizzare in nome della sussidiarietà cosiddetta orizzontale): in base alle nuove norme la gestione dei compiti amministrativi dovrebbe riguardare soprattutto gli enti locali, mentre le regioni dovrebbero caratterizzarsi per le funzioni legislative (notevolmente accresciute) e per funzioni di programmazione e di coordinamento del sistema regionale-locale.

C.      Al notevole ampliamento del potere legislativo regionale (che potrebbe in futuro essere ulteriormente incrementato in qualche altro campo) si somma un significativo riconoscimento di autonomia, con l’eliminazione sia dei controlli preventivi sulle leggi regionali sia della "forca caudina" dell’interesse nazionale quale limite persistente e diffusivo al legislatore regionale (limite che finora è stato per lo più interpretato in senso estensivo, legittimando invasioni di campo molteplici da parte dello Stato anche in settori tipici del legislatore regionale): in sostanza, le regioni vanno ora considerate assai meno "dipendenti" dallo Stato, anche se ovviamente vi sono ragioni supreme di unità nazionale che non possono non continuare a sussistere (tra l’altro in funzione del potere sostitutivo espressamente previsto dal nuovo art. 120).

D.      Si deve poi aggiungere che solo con la nuova riforma del Titolo V si rende effettivamente possibile in molti punti importanti (ad esempio in ordine alle materie di competenza regionale e al sistema regionale dei controlli) l’esercizio della nuova autonomia statutaria regionale prevista dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, che altrimenti non si sarebbe potuta concretamente sviluppare o avrebbe per più aspetti rischiato di confliggere con il quadro costituzionale previgente.

E.      Il nuovo testo del Titolo V apre per la prima volta al "regionalismo differenziato", che può consentire alle regioni ordinarie più intraprendenti di ampliare la sfera delle proprie competenze, "contrattandola" con lo Stato in campi significativi altrimenti oggetto di potere concorrente oppure addirittura riservati alla legislazione esclusiva statale (v. giustizia di pace, norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente e dei beni culturali): tutto ciò, naturalmente, in attesa che si ponga finalmente mano alla questione delle ingiustificate disparità tra regioni ordinarie e regioni e province speciali, che anche dopo questa riforma continueranno a godere di autentici privilegi, specie finanziari, e alle quali comunque si estenderanno automaticamente – stante la portata espansiva immediatamente efficace dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3/01 - le forme di autonomia più ampia previste dal nuovo Titolo V per le regioni ordinarie.

F.       Infine si può prevedere che l’entrata in vigore della riforma sia destinata verosimilmente a stimolare successivi (e forse ora più agevoli) interventi riformatori per integrare quanto sin qui il Parlamento è riuscito ad approvare, sia con ulteriori rafforzamenti del sistema delle autonomie, specie sul piano finanziario (v. federalismo fiscale, peraltro in un orizzonte di perequazione nazionale), sia in ordine ai già ricordati interventi sul Parlamento, sulla Corte costituzionale e sugli strumenti di raccordo tra Stato ed autonomie.

2. Qualche nodo problematico

A voler aggiungere qualche sintetica notazione su alcuni aspetti salienti delle innovazioni del Titolo V, si può sottolineare soprattutto quanto segue:

- in ordine alla tipologia del potere legislativo:

la riforma ha per molti versi rivoluzionato il sistema precedente, sia per aver rovesciato il rapporto tra il legislatore statale e quello regionale (quest’ultimo considerato ora come legislatore "generale" e residuale, essendo al Parlamento riservate competenze legislative tassativamente elencate), sia aver introdotto, accanto alla tradizionale categoria della legislazione regionale concorrente (comunque ampliata in ordine alle materie rispetto al precedente art. 117), un ambito (assai consistente) di legislazione regionale esclusiva, molto al di là di quanto era finora previsto anche negli statuti più avanzati delle regioni speciali.

Una prima considerazione è che per le materie di competenza regionale (sia concorrente che esclusiva) riguardanti, a qualche titolo, diritti civili o sociali è da ritenere sussistente un vincolo di determinazione per legge statale dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire su tutto il territorio nazionale (ex art. 117, comma 2, lett. m).

Si deve poi aggiungere che, in ordine alla potestà legislativa concorrente tra Stato e regione, per la quale è comunque è venuto meno formalmente il limite dell’interesse nazionale e delle altre regioni (anche se è difficile immaginare che non sussista un interesse nazionale connesso al principio di unità di cui all’art. 5 Cost., visto che tale interesse caratterizza anche gli Stati federali attraverso la cd. clausola di supremazia), si pone il problema della previetà o meno di determinazione dei principi fondamentali di competenza del legislatore statale: in proposito si ritiene, peraltro, che sia difficile adottare un orientamento diverso da quello che si è già consolidato a seguito della riforma regionale degli anni ’70 (e che è stato ripetutamente convalidato dalla Corte Costituzionale), in virtù del quale non sono da considerare indispensabili previe leggi cornice o leggi quadro (la cui carenza bloccherebbe di fatto il legislatore regionale sine die), essendo possibile ricavare i principi fondamentali in questione della legislazione vigente nelle materie interessate.

Ricordato poi che alcune materie riservate alla competenza legislativa statale possono essere oggetto di eventuale devoluzione (verosimilmente parziale) al legislatore regionale, ove intervengano esplicite intese tra Stato e regione interessata (da formalizzare poi con legge ordinaria del Parlamento) - in particolare in ordine a "norme generali sull’istruzione", "organizzazione della giustizia, per quanto riguarda il giudice di pace", nonché in materia di "tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali" – ci si può chiedere, a proposito di questa prospettiva di assetti regionali differenziati, che possono a maggior ragione riguardare anche materie oggetto di potere concorrente, se sia da subito possibile dar vita ad eventuali singole intese tra Regione interessata e Governo nazionale o se debba ipotizzarsi una previa legge attuativa "generale" su ambiti possibili e procedure da seguire (ipotesi, quest’ultima, forse sostenibile sul piano dell’opportunità, ma che non sembra trovare supporti nel tenore letterale del terzo comma del nuovo art. 116).

- in ordine ai controlli sull’attività legislativa delle regioni:

la novità essenziale è data dal venir meno del controllo governativo preventivo sulle leggi regionali, con la previsione invece di un’eventuale impugnazione successiva da parte del Governo, che può promuovere la questione di legittimità dinanzi alla Corte Costituzionale entro 60 giorni dalla pubblicazione della legge, senza impedirne intanto la vigenza. D’altra parte, a sottolineare una sorta di parivalenza tra il legislatore statale e quello regionale, è previsto dal nuovo art. 127 la possibilità (simmetrica) per una regione di impugnazione di una legge o atto avente valore di legge per questioni di legittimità costituzionale entro 60 giorni dalla loro pubblicazione.

In proposito, oltre a considerare che, in sostanza, la Corte Costituzionale è destinata a diventare sempre più arbitro dei conflitti di competenza legislativa tra Stato e regioni, prevedibilmente in futuro assai numerosi (specie nella prima fase successiva alla riforma), vi è tra l’altro da chiedersi quale orientamento potrà caratterizzare in prospettiva la giurisprudenza costituzionale in ordine ai limiti che il legislatore regionale dovrà ora comunque rispettare anche quando sia titolare di potere legislativo esclusivo: in altre parole, se varrà o meno quanto la giurisprudenza costituzionale ha sinora elaborato relativamente ai limiti sussistenti nei campi oggetto di potere legislativo esclusivo delle regioni speciali.

- in ordine alla potestà regolamentare:

si riconosce allo Stato solo quella relativa alle materie di legislazione esclusiva statale (salva delega alle regioni), mentre alle regioni viene riconosciuta potestà regolamentare in ogni altra materia (quindi escludendo di per sé un eventuale spazio regolamentare statale anche nei campi oggetto di potere legislativo concorrente). In coerenza, poi, con quanto già disposto dalla riforma Bassanini, nonché dal T.U. sull’ordinamento delle autonomie locali n. 267/00, viene altresì riconosciuta esplicitamente potestà regolamentare a comuni, province e città metropolitane in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, con una riserva sostanziale di potere regolativo che contribuisce a sottolineare il significato e il contenuto nuovo del principio di autonomia.

Per quanto riguarda in particolare il potere regolamentare delle regioni, restano aperte sin la questione della definizione (da parte degli Statuti) dell’organo competente ad esercitarlo (verosimilmente in futuro più la Giunta che il Consiglio), sia il problema del rapporto tra la legge e il regolamento regionale (se lasciare a ciascuna legge l’eventuale rinvio a spazi regolamentari oppure prevedere una sorta di legge regionale quadro sul potere regolamentare, del tipo della legge n. 400/88 a livello statale).

- In ordine alle funzioni amministrative:

la scelta di fondo è l’attribuzione ai comuni di tutto quanto gestito a livello di base, salvo il conferimento a livelli superiori per assicurare l’esercizio unitario, in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza: in tal senso, se da un lato indubbiamente si consolida e costituzionalizza l’impianto e la ratio della riforma avviata con la legge 59/97 (e già prima dalla legge n. 142/90), per altro verso emerge una impostazione così radicale del principio di sussidiarietà sul piano dell’amministrazione che può mettere, per più versi, in discussione anche parte di quanto è stato stabilito dal d.lgs. 112/98 e connesse disposizioni in ordine al riparto delle funzioni amministrative tra i vari livelli e alla ratio con cui identificare, a vario titolo, i livelli unitari sovracomunali (a parte il non trascurabile problema delle conseguenze delle inerzie, specie regionali, nella riallocazione delle funzioni agli enti locali e a parte il nodo delle garanzie a fronte di improprie interpretazioni dei livelli unitari).

Vi è inoltre un problema – di non facile soluzione, stante anche l’assoluta carenza di norme finali e transitorie nella riforma del titolo V – riguardante la operatività della suddetta previsione di forte potenziamento dei comuni e degli enti locali in campo amministrativo: se debba essere subito considerata effettiva o se sia indispensabile una previa identificazione e attribuzione delle funzioni da parte sia del legislatore statale che di quello regionale, in rapporto alle rispettive competenze legislative (con seguente trasferimento anche delle risorse finanziarie e organizzative).

- in ordine ai controlli amministrativi sulle autonomie territoriali:

il nuovo Titolo V abroga formalmente le norme che in precedenza prevedevano controlli sugli atti amministrativi delle regioni o degli enti locali (art. 125 e 130): d’altra parte la valorizzazione del principio di autonomia indirizza certamente – escludendo comunque controlli di merito - più verso forme di autocontrollo o di verifiche esterne di tipo collaborativo che su sindacati preventivi di legittimità (anche se non va sottovalutata l'esigenza di taluni controlli preventivi specifici, in particolare sugli atti normativi locali - di crescente importanza – e sui bilanci, in ragione del patto di stabilità). C’è comunque da chiedersi se dalla suddetta abrogazione delle precedenti norme costituzionali discenda la "automatica" soppressione di tutta la disciplina ordinaria previgente in materia (e non solo di quella espressamente attuativa di una norma costituzionale, come nel caso dell’art. 3 del d.lgs. 40/93 in ordine ai controlli sugli atti amministrativi regionali), come sembrano opinare taluni primi commentatori: ci si potrebbe tuttavia chiedere se in questa materia dei controlli – certamente ora decostituzionalizzata e affidata alla eventuale disciplina del legislatore ordinario – non possa sopravvivere, in via "transitoria" (salvo eventuali pronunce di illegittimità costituzionale, per incompatibilità col principio di autonomia, di parti più o meno ampie delle norme vigenti in materia), la precedente disciplina ordinaria, laddove non illegittima in rapporto alla nuova disciplina costituzionale dell’autonomia, ferma restando comunque l’urgenza di una revisione complessiva della ratio e delle forme dei controlli in uno Stato delle autonomie (in cui non sono ovviamente più configurabili modelli regionocentrici di verifica sugli enti locali). Questa seconda prospettiva appare avvalorata indubbiamente da quella giurisprudenza costituzionale (v. ad es. n. 1/56 e 193/85) che ha ritenuto di competenza del giudice delle leggi ex art. 134 Cost. ogni questione concernente la compatibilità rispetto a norme costituzionali sopravvenute delle leggi ordinarie preesistenti (se non riconosciute come abrogate dal giudice ordinario).

3. I più urgenti adempimenti legislativi

Al di là di questi punti e degli interrogativi fin qui segnalati, vi sono naturalmente altre importanti questioni sia di interpretazione che di attuazione della riforma del Titolo V. Tra queste appaiono di particolare rilievo quelle che si collegano all’esigenza di specifiche determinazioni legislative o di regolamento parlamentare indispensabili, a vario titolo, per realizzare concretamente il disegno riformatore. In proposito, oltre a quanto già accennato in ordine all’urgenza di una disciplina sui livelli essenziali delle prestazioni connesse a diritti civili e sociali, si possono menzionare soprattutto: la disciplina sulla partecipazione delle regioni alle fasi ascendente e discendente della formazione degli atti comunitari (approfondendo quale debba ora essere la funzione statale di raccordo nelle materie di competenza regionale) e all’attuazione e esecuzione degli accordi internazionali, nonché quella da cui dipende la possibilità per le regioni di concludere accordi a livello transnazionale; sull’autonomia finanziaria di regioni ed enti locali, che dovrà anche chiarire i rapporti tra le previsioni del d.lgs. 56/00 con il quadro costituzionale sopravvenuto; la definizione delle procedure per l’esercizio del potere sostitutivo previsto dal nuovo art. 120, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione; la legge sull’ordinamento della capitale della Repubblica; l’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali con i rappresentanti delle regioni e delle autonomie locali.

Concludo esprimendo l’auspicio che quanto (assai sinteticamente) si è potuto qui accennare possa contribuire a stimolare vecchi e nuovi interlocutori ad un proficuo dibattito critico – a maggior ragione tenuto conto di quanto sta emergendo (con orientamenti non sempre univoci) nelle audizioni sul nuovo Titolo V programmate dalla Commissione affari costituzionali del Senato – anche attraverso il canale telematico di "Amministrazione in cammino", che stiamo avviando nell’ambito del Centro Bachelet della Luiss per cercare di allargare l’orizzonte del dialogo con chi è interessato ai problemi di evoluzione e modernizzazione delle istituzioni politiche e amministrative.