Legislazione concorrente, principi impliciti e delega per la formulazione dei principi fondamentali

di Antonio D’Atena *

 

1. Permane l’equivalenza tra principi espressi e principi impliciti?. - 2. L’aberrante ipotesi della delega legislativa in materia di principi fondamentali . - 3. Le viscosità di ordine culturale.

 

1. Permane l’equivalenza tra principi espressi e principi impliciti?

Nonostante qualche presa di posizione in senso contrario, non pare contestabile che l’esercizio della nuova potestà legislativa concorrente da parte delle Regioni non sia subordinata alla previa adozione delle leggi-cornice. Tale necessità, esclusa nel vigore del vecchio testo costituzionale, sembra – ed a più forte ragione – da negare nel quadro del rovesciamento dell’enumerazione delle competenze.

Più complessa è invece la questione se, nel nuovo contesto, possa seguitarsi a sostenere la piena fungibilità tra principi impliciti e principi espressi, che costituiva uno degli elementi più caratteristici del modello italiano.

In favore della soluzione negativa, vengono invocati i precedenti federali. E’ – ad esempio – noto che, in Germania, in assenza di leggi-cornice (Rahmengesetze), i Länder non sono tenuti al rispetto di principi impliciti ricavabili dalla legislazione federale, ma operano come se fossero titolari di una competenza legislativa esclusiva. Il che è – tra l’altro – coerente con l’enumerazione federale delle competenze. Che rende il corpus della legislazione centrale refrattario ad esprimere principi applicabili alla generalità delle materie di competenza legislativa.

Resta, tuttavia, il fatto che in Germania – a differenza che in Italia – è la Costituzione a conferire espressamente carattere eventuale al limite dei principi: subordinando l’adozione delle leggi-cornice alla sussistenza dei presupposti contemplati dalla clausola d’esercizio dettata per la konkurrierende Gesetzgebung (così l’art. 75, comma 1, GG., richiamando l’art. 72). Nell’ordinamento tedesco, quindi, la subordinazione ai principi di matrice federale non è un connotato strutturale della competenza concorrente, ma l’effetto di una possibile limitazione: di una limitazione – si badi – ad essa apponibile dal legislatore federale solo se – ed in quanto – sussistano le condizioni costituzionalmente previste.

Ma non è tutto. E’, infatti, da considerare che – anche ad ammettere che la tesi sopra enunciata possa valere a regime (quando, cioè, si sia completata la transizione dal vecchio al nuovo ordinamento) – è ragionevolmente sostenibile che essa non debba ricevere necessariamente applicazione nella fase attuale: che è quella del passaggio dall’enumerazione regionale all’enumerazione statale delle competenze legislative.

E’, infatti, evidente che, a ridosso dell’entrata in vigore del rovesciamento dell’enumerazione, il corpus della legislazione nazionale è (ancora) idoneo ad esprimere principi suscettibili di orientare gli sviluppi della competenza legislativa concorrente delle Regioni.

Non può, inoltre, trascurarsi un profilo pratico di importanza capitale. Qualora si accogliesse l’opposta soluzione, si determinerebbe un prevedibile horror vacui, che potrebbe spingere ad interventi precipitosi e non sufficientemente meditati.

 

2. L’aberrante ipotesi della delega legislativa in materia di principi fondamentali

La conferma della fondatezza del timore appena espresso è fornita dal progetto La Loggia (consultato dallo scrivente nella versione recante la data del 9.1.2002). Il quale prevede che, in sede di prima applicazione, alla formulazione dei principi fondamentali, proceda il Governo, in base ad una delega legislativa (art. 1, commi 4 ss.).

Si tratta di una soluzione che non sembra eccessivo qualificare aberrante.

Anzitutto, per una ragione di ordine strutturale. L’art. 76 Cost., subordinando la legittimità della delega legislativa alla fissazione, da parte della legge che la dispone, dei principi e criteri direttivi, rende assai problematico che l’oggetto della delega stessa possa, a propria volta, essere costituito da principi: e, cioè, da determinazioni della stessa natura di quelle che dovrebbero guidarne la formulazione. Senza contare che questi ultimi (i principi – se così può dirsi – al quadrato), essendo finalizzati alla formulazione di altri principi, verrebbero fatalmente ad assumere un carattere di assoluta evanescenza (tanto più se – come nella specie – dovessero riferirsi ad una ventina di materie diverse, fortemente eterogenee l’una dall’altra).

Dell’esattezza della conclusione forniscono esemplare conferma i cinque (si badi: cinque) principi enunciati dalla disposizione che si commenta: i principi di completezza, adeguatezza, chiarezza, proporzionalità ed omogeneità. I quali – tra l’altro – essendo in buona parte mutuati da una disposizione riferita alla riallocazione delle competenze amministrative (l’art. 4, comma 3, l. n. 59/1997), risultano inapplicabili alla materia in funzione della quale sono dettati (quella dei limiti verticali alla potestà legislativa concorrente delle Regioni). E conferiscono, quindi, per questa parte, all’atto che li contiene, il crisma dell’ineffabilità.

A ciò è da aggiungere che – come si è posto in luce in dottrina (Pizzetti) – sussistono consistenti elementi per sostenere che la materia dei principi fondamentali sia coperta da riserva di assemblea (e, conseguentemente, sottratta alla delegazione legislativa). In tal senso può invocarsi l’art. 11, comma 2, l. cost. n. 3/2001 (la norma sulla “bicameralina”). Il quale include le leggi-cornice tra gli atti su cui deve essere obbligatoriamente consultata la Commissione parlamentare per le questioni regionali integrata ai sensi del primo comma. E prevede che, qualora la Commissione referente non si sia adeguata al parere da questa espresso, “sulle corrispondenti parti del progetto di legge l’Assemblea (deliberi) a maggioranza assoluta dei suoi componenti”.

Non va, infine, trascurata un’ultima osservazione.  Nella specie, lo strumento della delega legislativa non sarebbe nemmeno in grado di assolvere alla funzione pratica che viene invocata a suo sostegno: quella, cioè, di offrire un quadro di certezze al primo esercizio della competenza concorrente da parte delle Regioni. Si tratta, infatti, di una delega per la “ricognizione” dei principi impliciti vigenti nelle materie di cui all’art. 117, comma 3. In conseguenza di ciò, gli atti che ne costituissero esercizio, non noverebbero la fonte dei principi da essi codificati. E sarebbero, quindi, esposti alla spada di Damocle dell’annullamento ad opera della Corte costituzionale, per violazione di questi.

 

3. Le viscosità di ordine culturale

            Il discorso non può fermarsi a questo punto. L’ipotesi della delega legislativa in materia di principi fondamentali è, infatti, spia di un problema più generale. Il quale è oggi, probabilmente, il maggiore problema sul tappeto: quello della difficoltà di metabolizzare – in termini di cultura istituzionale – le enormi novità introdotte nel nostro ordinamento dalla riforma del titolo V.

A tale difficoltà è probabilmente da ascrivere il fatto che, nonostante il rovesciamento dell’enumerazione delle competenze legislative, lo Stato seguiti a legiferare come se nulla fosse avvenuto: intervenendo con propri atti anche in materie assoggettate alla competenza esclusiva delle Regioni. Né ad eliminare l’illegittimità di tali interventi può valere l’introduzione di clausole di cedevolezza (rivolte a rendere le norme statali derogabili ad opera di successive leggi regionali). Anche, infatti, a non condividere l’opinione che norme di questa natura fossero di dubbia compatibilità con l’assetto costituzionale precedente, non sembra contestabile che, nel quadro del nuovo sistema, esse risultino assolutamente ingiustificabili. Per l’evidente ragione che, a seguito del rovesciamento dell’enumerazione, ormai lo Stato non può intervenire che nelle materie riservategli dalla Costituzione (si badi: espressamente riservategli, secondo quanto precisa il comma 4 dell’art. 117).

E analoghe considerazioni possono valere per la tendenza dello Stato ad adottare regolamenti in materie diverse da quelle che l’art. 117, comma 2, assegna alla sua competenza esclusiva (in violazione, quindi, dell’art. 117, comma 6). Un esempio recente è rappresentato dal DPCM 11.1.2002, il quale, modificando precedenti atti della stessa natura, ha alterato la distribuzione dei seggi tra Regioni ed enti territoriali minori nell’ambito del Comitato delle Regioni di Bruxelles. In questa sede non interessa il merito del provvedimento (il quale, avendo portato da 12 a 14 il numero dei rappresentanti regionali, attenua la condizione di minorità delle Regioni italiane rispetto alle entità sub-statali degli altri Stati membri di tipo federale o regionale; e si muove, quindi, nella giusta direzione). Quello che va sottolineato è che esso avrebbe dovuto essere adottato in forma legislativa.

E sempre alla persistenza di un atteggiamento anacronisticamente centralistico può ricondursi il disegno di legge-cornice in materia di elezioni regionali approvato dal Consiglio dei Ministri nella seduta del 25 gennaio 2002. Il quale, annoverando tra i principi che devono imporsi al rispetto delle Regioni, il principio della “contestualità dell’elezione del Presidente della Giunta regionale con il rinnovo del Consiglio regionale”, non si limita ad indirizzare la potestà legislativa concorrente delle Regioni in materia elettorale, ma condiziona la scelta della forma di Governo, invadendo indebitamente un ambito che l’art. 123 Cost. riserva all’autonomia statutaria.

Non c’è bisogno di moltiplicare gli esempi, per rendersi conto che probabilmente sono proprio le viscosità di ordine culturale il maggior pericolo che si oppone al decollo della riforma.

Né sembra che a giustificazione di disinvolti usi delle forme costituzionali possa invocarsi la sussistenza di difficoltà oggettive: ad esempio, in ordine all’individuazione dei principi impliciti od all’interpretazione delle materie incluse negli elenchi.

Deve, infatti, prendersi atto che una delle conseguenze più dirompenti della revisione del titolo V è la perdita, da parte dello Stato, del ruolo tutorio, che, nonostante tutto, seguitava a riconoscergli la vecchia disciplina (o, in altri termini, della sua posizione di supremazia, nei confronti delle Regioni).

In conseguenza di ciò, la strada per affrontare questi problemi dovrebbe essere quella della cooperazione: attivando quanto è previsto (la bicameralina di cui all’art. 11, per la fissazione dei principi fondamentali) e ricorrendo a strumenti di coordinamento paritario – come le convenzioni costituzionali – analogamente a quanto accade negli ordinamenti federali. Si pensi – ad esempio – a quell’accordo di Lindau con il quale, il 14 novembre 1957, il Bund ed i Länder tedeschi hanno sciolto i complessi nodi posti sul tappeto dall’esercizio del potere estero nelle materie di competenza esclusiva dei Länder (o, comunque, involgenti essenziali interessi di questi).

Ciò che va scongiurato è che, nella delicatissima fase dell’avvio della nuova esperienza, si consolidi un assetto reale contrastante con la disciplina entrata in vigore l’8 novembre 2001. Condannando quest’ultima al non brillante destino toccato al vecchio titolo V.

 

* p.o. di diritto costituzionale - Università di Roma “Tor Vergata” - Datena@juris.uniroma2.it