SENATO DELLA REPUBBLICA
XIV LEGISLATURA
BOZZE NON CORRETTE
1ª COMMISSIONE PERMANENTE
(Affari
costituzionali, affari della Presidenza del Consiglio e dell'interno,
ordinamento generale dello Stato e della Pubblica Amministrazione)
INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI EFFETTI NELL'ORDINAMENTO DELLE REVISIONI DEL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
5° RESOCONTO STENOGRAFICO
SEDUTA DI MERCOLEDI' 31 OTTOBRE 2001
Presidenza del presidente PASTORE
I testi contenuti nel presente fascicolo - che anticipa ad uso interno l'edizione del Resoconto stenografico - non sono stati rivisti dagli oratori
INDICE
Audizione del Presidente del Consiglio di Stato
PRESIDENTE BASSANINI (DS-U) VILLONE (DS-U) |
DE ROBERTO |
Audizione del Presidente e del Procuratore Generale presso la Corte dei conti
PRESIDENTE FALCIER (FI) MAFFIOLI (CCD-CDU:BF) MAGNALBO' (AN) |
APICELLA STADERINI |
N.B: Sigle dei Gruppi parlamentari: Alleanza Nazionale: AN; CCD-CDU:Biancofiore: CCD-CDU:BF; Forza Italia: FI; Lega Nord Padania: LNP; Democratici di Sinistra-l'Ulivo: DS-U; Margherita-DL-l'Ulivo: Mar-DL-U; Verdi-l'Ulivo: Verdi-U; Gruppo per le autonomie: Aut; Misto: Misto; Misto-Comunisti italiani: Misto-Com; Misto-Rifondazione Comunista: Misto-RC; Misto-Socialisti Democratici Italiani-SDI: Misto-SDI; Misto-Lega per l'autonomia lombarda: Misto-LAL; Misto-Libertà e giustizia per l'’Ulivo: Misto-LGU; Misto-Movimento territorio lombardo: Misto-MTL; Misto-Nuovo PSI: Misto-NPSI; Misto-Partito repubblicano italiano: Misto-PRI; Misto-MSI-Fiamma Tricolore: Misto-MSI-Fiamma.
Intervengono il professor Alberto De Roberto, presidente del Consiglio di Stato, il professor Francesco Staderini, presidente della Corte dei conti e il dottor Vincenzo Apicella, procuratore generale presso la Corte dei conti.
I lavori hanno inizio alle ore 10,10.
PROCEDURE INFORMATIVE
Audizione del Presidente del Consiglio di Stato
PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca il seguito dell'indagine conoscitiva sugli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione, sospesa nella seduta di ieri.
Avremo oggi il piacere di ascoltare il presidente del Consiglio di Stato, professor Alberto De Roberto, il quale, nella sua funzione di presidente di un organo ausiliario dell'attività di Governo, per quanto riguarda l'applicazione di questa nuova normativa a livello statale, potrà darci dei lumi circa l'intera vicenda ordinamentale che viene modificata dalla riforma regionale.
Mi permetto di introdurre brevemente questa audizione sottolineando l'importanza e la delicatezza dei temi in discussione, nonché la necessità politica - che poi diviene necessità giuridica - di fare in modo che la riforma venga attuata con la gradualità e l'equilibrio necessari per portarla al livello di compiutezza che tutti ci auguriamo, al di là delle opzioni esistenti sui vari punti in discussione.
Ritengo quindi che quanto oggi emergerà sia assai importante perché noi siamo impegnati da subito a dare attuazione a questa riforma, con quella flessibilità che l'ordinamento costituzionale e quello generale dello Stato ci consentono di applicare in questa delicatissima fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema.
Do pertanto la parola al presidente De Roberto.
DE ROBERTO. Signor Presidente, la ringrazio molto a nome dell'Istituto al quale appartengo e mio personale per questo graditissimo invito.
Avendo effettuato una prima lettura della normativa, quelle che esprimerò sono solo impressioni. Forse conviene marciare sui terreni che sono più vicini alle mie attività istituzionali, quindi fare riferimento alle questioni relative alla normativa secondaria, più che a quella primaria; inoltre, se volete, posso aggiungere qualche osservazione sui controlli e su come l'organizzazione amministrativa dovrebbe conseguire la sua concreta attuazione.
Per quel che riguarda la potestà regolamentare, effettivamente c'è un cambiamento radicale nell'ambito dell'ordinamento, derivante dal riparto di competenze della normativa primaria. Quest'ultima ha avuto un'inversione di tendenza, un vero e proprio capovolgimento rispetto al passato. In sostanza, il primato ottocentesco, almeno orizzontale, della legge statale è tramontato secondo questa normativa, la quale prevede materie nominativamente identificate attribuite al legislatore statale, nelle quali il legislatore statale può "pascolare" da solo, mentre la competenza residuale negativa - come si diceva un tempo per la legislazione statale - è stata attribuita alle regioni, che sembrerebbero muovere alimentate da un doppio titolo. Da una parte, vi è il titolo delle competenze attribuite con il nuovo articolo 117, terzo comma, della Costituzione, la cosiddetta competenza concorrente, nella quale la regione soggiace ai princìpi fondamentali posti dalla legge dello Stato. Dall'altra vi è un'area dai confini infiniti, che abbraccia ogni vicenda del giuridicamente rilevante, capace di un'espansione senza limiti in questo momento: in tale area la regione certo a qualche regola deve soggiacere (forse a quei princìpi di unità giuridica ed economica di cui si parla nel comma 2 del nuovo articolo 120), ma non è al guinzaglio dei princìpi fondamentali delle leggi dello Stato, sia canonizzati, sia viventi allo stato magmatico nella normativa statale precedentemente operante nell'ordinamento.
Non vorrei indugiare su questo quadro legislativo, che tutto sommato credo sia ricostruito senza grandi difficoltà. Non avrei dubbi, per esempio, sul fatto che per i princìpi fondamentali la situazione è quella di trent'anni fa, per molti aspetti. Non credo che la legge regionale possa rimanere impietrita ed immobile se i princìpi fondamentali non vengono direttamente erogati e confezionati in maniera compiuta in regole fondamentali del sistema. Credo che i princìpi fondamentali, se non vengono offerti, forse vanno desunti alla stregua di quei valori fondamentali che sono alla base della normativa statale vigente, come è avvenuto certamente in occasione dei trasferimenti di funzioni del 1972. Almeno questo è il mio parere.
Ma sui temi relativi alle leggi non mi sono soffermato particolarmente. Ho riflettuto invece sulla potestà regolamentare. Non credo che vi siano aspetti sconvolgenti sul piano dei princìpi fondamentali, ma la competenza certo è cambiata. La competenza statale si è «rattrappita» a livello legislativo. Di conseguenza, il legislatore statale può creare centri di produzione normativa ormai in un'orbita più circoscritta. Compare sulla scena, come autorità capace di produrre la normativa secondaria in area statale, anche la regione, che naturalmente in questo campo è asservita all'ordinamento statale. È una regione con ruolo ancillare, chiamata a sviluppare soltanto una normativa di carattere secondario, che sarà ovviamente dominata - come qualunque normativa secondaria che ha la sua matrice nella legge dello Stato - dai princìpi del nostro ordinamento.
In realtà qualche preoccupazione sorge. La normativa secondaria statale, di regola devoluta al Governo o ai singoli ministri, ha avuto sempre la garanzia del controllo preventivo, del parere del Consiglio di Stato. L'espressione "controllo preventivo" forse è una formula impropria, ma tutto sommato il regolamento governativo viene valutato nella sua conformità alla Costituzione e alle leggi dal Consiglio di Stato. Inoltre, esiste un contributo alla fattura della norma, tanto che la normativa secondaria italiana non è proprio negativa sul piano formale, forse perché scritta da un'unica mano. È chiaro che l'utilizzazione, come centro di produzione, della regione, qualche problema lo pone. Se si darà luogo a tale delega, che comunque sottolinea un asservimento della regione, con compiti che non possono essere quelli del regolamento indipendente, ma solo dei regolamenti di attuazione ed esecutivi, si permetterà alla stessa di muoversi a briglia sciolta. Certamente non è trasferibile, in questo momento almeno, la competenza consultiva del Consiglio di Stato. Insomma, il padrone del vapore, per così dire, è il legislatore statale che, a questo riguardo, può creare il centro di produzione, addirittura a livello costituzionale. Credo che in qualche maniera possa pure influenzare, trattandosi di area statale, il procedimento ma certamente vi è la perdita della competenza a livello di normativa secondaria di quel controllo formale di conformità all'ordinamento a livello di parere che in precedenza esprimeva il Consiglio di Stato.
Naturalmente, il discorso diventa quasi insuperabile per quel che riguarda la legislazione regionale. Io penserei, da un lato, ad una legislazione regionale, che si muove secondo i dettati del terzo comma, sorretta dai princìpi fondamentali; dall'altro, ad una legislazione regionale che muove in aree libere, o almeno apparentemente tali. In questo ambito la competenza legislativa è delle regioni e queste decidono quanta parte vogliono regolare a livello primario e quanta parte a livello secondario.
La regione, nell'ambito delle competenze rette dai princìpi fondamentali, non potrà, per saltum, passare alla potestà regolamentare. Il princìpio ha bisogno di una sua attuazione attraverso una legislazione primaria regionale. Anche questo, forse, sarà campo soltanto di una normazione regolamentare di esecuzione o di attuazione da parte delle regioni. Certo, in un settore come questo, la potestà regolamentare probabilmente verrà esercitata dalle regioni attraverso la giunta, che certo non è un organo direttamente espressivo della collettività nel nuovo ordinamento. Credo però che siano gli statuti a dover decidere. Secondo me, lo statuto regionale dovrebbe decidere per una competenza del consiglio regionale quante volte si tratta di dar vita ai regolamenti di attuazione di leggi statali, mentre i regolamenti a servizio delle leggi regionali dovrebbero passare per un altro centro di produzione normativa. La legge costituzionale n. 1 del 1999 ha sostanzialmente modificato l'articolo 121 della Costituzione, prevedendo che non sia sempre il consiglio regionale, proprio per evitare la concentrazione in un'unica mano delle due competenze, a produrre le norme regolamentari. Ripeto, si tratta di discorsi rimessi agli statuti. Coerenza vorrebbe che gli statuti regionali attribuissero ai consigli regionali il compito di sviluppare la normativa statale e tenessero ferma la bipartizione tra competenza del consiglio e competenza della giunta per quel che riguarda la legge regionale e la sua attuazione regolamentare.
Questo riparto delle competenze oggi opera con effetto immediato o con effetto differito? La problematica si pone, naturalmente, non tanto per le competenze legislative statali. Lo Stato probabilmente è chiuso in uno spazio più stretto di competenze. Senza dubbio sopravvivono normative che passano nel dominio della normativa regionale. Ho la sensazione che, tutto sommato, queste nuove aree che passano nella competenza regionale, che però sono disciplinate dal legislatore statale, non ammettano più alcuna forma di intervento da parte del legislatore statale stesso. Hanno paternità statale, però sono norme sulle quali, d'ora in poi, potrà intervenire soltanto il legislatore statale o quello regionale, qualora il primo dovesse così decidere.
A partire dall'entrata in vigore della Costituzione, nel quadro di una prima sensazione che si muove nel solco di vicende vissute trent'anni fa, il passaggio della competenza alla regione, per l'horror vacui che suscita in ognuno di noi, non è un passaggio in un ordinamento caratterizzato da aree bianche. La normativa regionale potrà muovere incontrando norme suppletive e cedevoli. La normativa statale, sia di rango primario sia di rango secondario, vive ma è suscettibile di essere sostituita solo dalla normativa regionale, che potrà galoppare con maggiori spazi nelle aree in cui la regione non soggiace ai princìpi fondamentali. Al contrario, nelle aree concernenti i princìpi fondamentali, le regioni si muoveranno nel rispetto di quei valori viventi sotto traccia nell'attuale normativa statale, la quale continuerà ad esprimere i suoi valori come princìpi fondamentali, ma che nel dettaglio verrà sostituita quando occorre dal legislatore regionale quando quest'ultimo così deciderà.
La mia sensazione - sempre nel quadro di una lettura provvisoria, che richiederebbe ben altre riflessioni delle pochissime che ho fatto, e nemmeno a tempo pieno, per quest'incontro - è che oggi possiamo attingere a piene mani alle vicende degli anni '70. Indubbiamente, un fenomeno di minori proporzioni ma in sostanza la vicenda non è profondamente diversa. Abbiamo un legislatore che ha operato fino ad oggi ed il passaggio ad un altro legislatore che diventa il padrone del vapore in quel settore. Il legislatore regionale nelle aree concernenti i princìpi fondamentali troverà di fronte a sé normative primarie e secondarie. Le une e le altre sono ormai pietrificate perché espresse dallo Stato. Lo sviluppo della normativa spetta d'ora innanzi alla regione, la quale certamente non abroga la legge dello Stato, ma si muove nei campi di propria spettanza. Le leggi statali, in altre parole, si ritraggono per volontà della Costituzione nel momento in cui si fanno largo le leggi e la normativa regionale. Quindi, la normativa regionale conquista il campo di sua competenza e, per volontà della Costituzione, la normativa statale arretra nel quadro di un fenomeno che non è certamente da ricondurre all'abrogazione. Grosso modo, tale situazione è assimilabile, ripeto, alla vicenda sviluppatasi negli anni '70 in occasione dell'attuazione delle regioni. Naturalmente la mancanza di princìpi fondamentali determina problematiche non nuove: il trasferimento sull'interprete e sulla regione in primo luogo dell'identificazione dei valori fondamentali, nelle aree concernenti i princìpi fondamentali.
Non so se confezionare i princìpi fondamentali sia un mestiere facile. Il princìpio fondamentale, infatti, è veramente difficile da esprimere e da racchiudere nel giro breve di una frase. Certo, il legislatore statale, nei settori di cui al terzo comma dell'articolo 117 della Costituzione, sicuramente potrà porre in essere i princìpi fondamentali. Ora, che siano princìpi fondamentali diversi da quelli a cui si è ispirata nel tempo la regione è difficile dirlo. Sono rebus che devono essere sciolti. Forse non si può parlare di abrogazione per il princìpio fondamentale. Al riguardo, ricordo l'articolo 10 della legge n. 62 del 1953 (la legge Scelba) che, in sostanza, dava un termine di grazia alla regione affinché essa si adeguasse ai relativi princìpi. Nonostante un certo orientamento che parlò successivamente di abrogazione, il terrore del vuoto mi condurrebbe a pensare piuttosto ad una illegittimità costituzionale sopravvenuta della legge regionale contrastante con tali princìpi.
Non vorrei abusare della vostra cortese attenzione. Abbiamo affrontato temi molto rilevanti e mi guardo bene dal sostenere che i messaggi dati siano del tutto affidabili. Si tratta solo di una lettura condotta da un appassionato di problemi di diritto costituzionale che nemmeno garantisce l'interpretazione che sarà data successivamente dall'istituto che presiede.
L'unica affermazione che istituzionalmente posso fare è che una scelta legislativa nelle aree statali, dove lo Stato conserva il suo dominio, con la delega alle regioni, certamente ci metterebbe fuori campo; metterebbe cioè fuori campo la funzione di consulenza obbligatoria, utilissima, così come va dato atto alla riforma Bassanini dell'utilità dell'amputazione di certe competenze sia facoltative che obbligatorie di vecchia maniera. Tale intervento, che con la creazione della sezione degli affari normativi può offrire un ausilio per la normativa secondaria, con il trasferimento delle competenze normative alla regione finisce con il creare seri problemi. Non so se il legislatore potrà essere lasciato ancora in campo. Forse sì ma solo perché si tratta di materie di competenza statale e in quel settore il legislatore statale decide anche dei procedimenti. Si tratta, in ogni caso, di un nodo politico che non spetta a me sciogliere.
PRESIDENTE. La ringrazio, presidente De Roberto, per il suo autorevole e prezioso contributo.
Anche per le regioni si è aperta una fase di transizione dovuta all'elaborazione dei nuovi statuti. Quest'ultima - a mio sommesso avviso - subisce un rallentamento proprio per effetto dell'entrata in vigore delle nuove leggi, in particolare per tutta la vicenda regolamentare che acquista una nuova dimensione proprio in considerazione delle norme costituzionali che ci ha ricordato. In tale situazione, si corre il rischio che non vi sia nessuno in grado di emanare i regolamenti di attuazione perché mancherebbe - mi auguro per poco tempo - la normativa che disciplina le procedure e le modalità, e che individua gli stessi organi che i regolamenti regionali sono chiamati ad approvare.
Il secondo comma del nuovo articolo 120 della Costituzione individua, sia pure per materie estremamente rigorose, una funzione sostitutiva del Governo anche se quest'ultima è subordinata ad una legge che ne definisce le procedure.
Si tratta solo di uno spunto per una riflessione che sottopongo ad uno studioso che desideri impegnarsi su questo fronte. Di fronte all'impossibilità di attuare leggi dello Stato, in tema di potestà legislativa concorrente, visto che le Regioni non sono attrezzate, dobbiamo affrontare il problema e trovare una soluzione di carattere quanto meno transitorio.
VILLONE (DS-U). Anch'io ringrazio il nostro autorevole ospite per il contributo che ci ha fornito.
Osservo con favore che egli ha dato una lettura positiva dell'insieme delle norme, volta a far funzionare il sistema. Mi sembra un atteggiamento molto giusto e corretto. In particolare, sul punto riguardante i princìpi fondamentali, il presidente De Roberto ha affermato che, a suo avviso, è ancora applicabile il meccanismo secondo il quale essi possono essere desunti, quando, invece, esiste un'opinione orientata in senso diverso; opinione che oggi potrebbe creare serie difficoltà all'avvio concreto dell'attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione. Mi fa piacere quindi che il Presidente del Consiglio di Stato, che occupa una posizione di snodo fondamentale nel sistema, abbia mostrato tale sensibilità.
Intendo richiamarmi però ad alcuni aspetti che il professor De Roberto ha sottolineato riguardanti il potere regolamentare, e lo faccio in relazione ad una mia sensazione. Fino ad oggi il regolamento, nel sistema delle fonti regionali, non ha avuto fortuna. Il motivo è da individuare nel fatto che la scelta per il regolamento non conveniva essendo affidata - mi riferisco al vecchio regime - al consiglio regionale. Non era, quindi, conveniente come scelta perché aveva tutti gli oneri e le difficoltà di un atto che passava attraverso l'organo assembleare quando in realtà si trattava di un atto di minore valenza. È per questo che, dovendo scegliere, si optava per la legge piuttosto che per il regolamento. Adesso però le cose cambiano: siamo di fronte ad un quadro che richiederà un raffinamento del sistema delle fonti regionali, come mi pare che lei giustamente abbia lasciato intendere; in tale opera vi è anche il punto della fonte regolamentare.
Ritengo che vi sarà una fase statutaria, come è stato detto, perché è attraverso tale fase che passa la costruzione di un sistema sofisticato di fonti a livello regionale. Non credo che nel frattempo vi siano poteri sostitutivi applicabili, se questa è la domanda che poneva il presidente Pastore: può succedere che si proceda con una legislazione un po' ipertrofica, come è stato nel passato. Questa è la mia ipotesi: la legislazione regionale potrebbe coprire quello che sarebbe il campo per una corretta copertura regolamentare.
Due domande al nostro ospite. A proposito della potestà regolamentare, per la legislazione concorrente prevista dall'articolo 117, ho colto la sua osservazione, che alla regione spetterebbero solo regolamenti di attuazione, perché - dice il presidente De Roberto - lo Stato è il padrone del vapore; una battuta simpatica che apprezzo. A me sembra però che i padroni del vapore siano due, perché nella parte di potestà concorrente abbiamo la presenza dello Stato e delle regioni. Allora, la domanda che le pongo è la seguente: siamo sicuri che, per la parte concorrente, la regione non possa modulare la propria potestà regolamentare? Non mi sentirei di condividere l'ipotesi che vi sia spazio solo per regolamenti di attuazione; al contrario, ritengo che, per quella parte, vi sia la possibilità di definire una tipologia più articolata. Non entriamo nel dettaglio di quanto più articolata, ma non posso condividere l'idea che vi sia solo il mero regolamento di esecuzione; non mi convince, posto che una parte è comunque affidata alla normazione regionale ex articolo 117 e nell'ambito di ciò che rimane alla regione mi sembrerebbe possibile modulare anche una tipologia più articolata della potestà regolamentare.
Per quanto riguarda la parte che in via residuale rimane alla regione, secondo la formula: «tutto il resto alla Regione» (che a mio avviso può avere un'importanza rilevante), la potestà regolamentare c'è sicuramente. Domanda: su questa parte (e pensandoci bene anche su quella concorrente) basterebbe una legge regionale del tipo della n. 400 del 1988, cioè una legge generale sulla potestà regolamentare, che definisca i casi, le tipologie, le procedure? Oppure abbiamo bisogno di un approccio diverso, nel senso che la legge, di volta in volta, definisce il suo ambito di potestà regolamentare? Io propendo per l'ipotesi che una legge regionale come la n. 400 sopra richiamata sia possibile. Mi farebbe piacere sentire su questo l'opinione del nostro ospite.
DE ROBERTO. La domanda che mi ha posto il Presidente è francamente più complicata della seconda; su di essa mi muovo - lo confesso - con maggiore difficoltà; anche perché si tratta di un approccio diretto: ho letto il testo, ma francamente ci ho riflettuto poco. Il secondo comma dell'articolo 120 è una norma tutto sommato di garanzia che prevede l'intervento del Governo. Leggendo questa disposizione, non mi è chiaro se l'intervento sostitutivo prende in considerazione soltanto l'azione amministrativa o se addirittura si può parlare di un intervento un po' più irriverente, un po' più incisivo, forse più pesante, che riguardi pure la legislazione regionale.
BASSANINI (DS-U). Siamo tutti incerti su questo.
DE ROBERTO. Questo mi dà molto coraggio. Si tratta comunque di un ghiotto boccone giuridico.
Fa un certo effetto, ma se è riferito all'atto amministrativo, tutto sommato, rappresenta un accadimento meno sconvolgente: il Governo eserciterebbe un potere di annullamento (e forse non è neppure giusto chiamarlo annullamento, è un po' troppo impegnativo), un intervento demolitore dell'atto regionale, la cui sostituzione - se ho capito bene - è affidata a leggi statali, che però in qualche modo dovrebbero recuperare i valori della sussidiarietà nell'ambito dell'ordinamento.
Certo, in realtà i valori supremi di cui parla l'articolo 120 ma che si spostano topograficamente al di là di quell'articolo, garantiscono l'unitarietà dello Stato anche fuori dalle aree nelle quali operano i princìpi fondamentali. È a mio avviso preziosa la formula utilizzata nel nuovo articolo 120 della Costituzione, laddove si parla della «tutela dell'unità giuridica o dell'unità economica». Pur nel suo apparente ermetismo, essa esprime un valore forte di unitarietà dello Stato.
Però potrebbe essere una legge regionale a consumare questa violazione, per esempio una legge regionale che deroghi ad ogni princìpio di libero mercato, che consenta trattamenti differenziati per gli appartenenti alla propria collettività; si possono immaginare mille follie da compiersi a livello regionale. Cosa dovrebbe fare il Governo? Emanare un decreto-legge? È una situazione nuova, che richiede un'approfondita riflessione; si tratta di uno strumento probabilmente prezioso che, se si saprà manovrare (come certamente avverrà) con il necessario equilibrio e con la giusta preoccupazione degli interessi unitari, che credo stiano a cuore a tutti, potrà assicurare un buon risultato (forse questo obiettivo era negli stessi intendimenti degli autori della norma costituzionale), anche se la trama ha bisogno di essere svelata con una lettura che richiede meditazione e attenzione.
Si tratta di una sostituzione che spetta al Governo nei confronti dell'atto amministrativo regionale e della legge, con atti che non saprei vedere al di fuori del decreto-legge (non con un intervento del Parlamento differito nel tempo, perché si tratta di intervenire forse ad horas). Questo forse spiega perché si parla di Governo, altrimenti non si capirebbe. Se l'esigenza unitaria consentisse il rispetto di tempi tecnici maggiori, perché non dovrebbe essere il Parlamento in carne ed ossa, per così dire, ad intervenire? Si parla del Governo proprio perché l'urgenza è tale e in re ipsa richiede tale tipo di intervento. Ripeto, è da prendere come una sensazione a caldo. È una norma affascinante sul piano giuridico ma anche di grande interesse perché certamente è attenta alla cura dell'interesse unitario. La considero una norma che richiede una correzione topografica e che vedrei piuttosto collocata come norma che esprime a livello di legislazione determinati valori; certamente agisce in via di ricaduta anche sulla discrezionalità amministrativa ma è una norma che consacra certi princìpi unitari cui la legislazione, anche quella libera di agire nei campi in cui non vige il princìpio fondamentale, deve soggiacere.
BASSANINI. (DS-U). Lei pensa ad un decreto-legge anche nelle materie di competenza esclusiva delle regioni, ove ricorrano questi presupposti?
DE ROBERTO. Se vigono solo questi peccati mortali, non mi emozionerei troppo.
Nel quadro delle mie sensazioni, l'esclusività regionale impone egualmente la salvaguardia di certi valori indeclinabili. Dal momento che i valori contenuti nell'articolo 120 della Costituzione, che non ho atomisticamente preso in considerazione, mi danno la sensazione di affacciarmi su valori supremi dell'ordinamento, essi devono essere incarnati da ogni legge regionale, comprese quelle che operano in queste aree residuali di cui, con riferimento all'ordinamento che moltiplica i suoi interessi, non riusciamo poi nemmeno ad identificare i precisi confini.
Semmai mi preoccupa il fatto che la legge regionale in questi campi sterminati possa operare senza decreto-legge o senza decreto legislativo. Capisco che è difficile immaginare interventi «ortopedici» senza modifiche costituzionali ma in queste aree sterminate, che a volte possono reclamare interventi di urgenza, che potrebbero forse anche appesantire le regioni per il loro tecnicismo e che probabilmente richiederebbero l'impiego del decreto legislativo, è chiaro che l'abbondanza delle competenze alle regioni conduce a certi sforzi del sistema statale. Direttamente il Titolo V di questo dato non si fa carico e quindi è un nodo difficile da risolvere.
Il senatore Villone ha chiesto quale fosse la mia sensazione in merito agli spazi della competenza. Ritengo che in materia di princìpi fondamentali la regione abbia certamente spazi più ridotti perché deve rispettare tali princìpi; è la legge regionale che deve decidere quanto vuole arare direttamente con le sue norme e quanto vuole attribuire al centro di normativa secondaria.
Si deve immaginare una regione che non abbandona ad altre mani interamente la materia. Per saltum, nella logica dei regolamenti indipendenti, di cui si legge più nei libri che nella realtà concreta, dal momento che un regolamento indipendente al quale nella normativa secondaria venga consentito di muovere con sfrenata libertà non si è mai visto, credo che il regolamento regionale in materia di princìpi fondamentali debba essere tenuto alla briglia da un intervento di legislazione primaria. Non sarei molto convinto di questo diretto attacco al legislatore statale, tanto più che in questo caso l'unica a produrre la normativa non potrebbe che essere la giunta regionale.
Il senatore Villone giustamente si rammaricava per il fatto che l'articolo 121 della Costituzione prevedeva il consiglio regionale come produttore di leggi e di regolamenti. Tutto questo però, a mio avviso, è stata conseguenza di un probabile travisamento di lettura della Corte costituzionale con riferimento alle norme di attuazione.
Tutta la normativa emanata durante l'amministrazione Bassanini, il quale si è spesso interessato di questi temi, si ispira ad un particolare princìpio: quando la regione riceve deleghe dallo Stato ha possibilità di gestire normativamente quel determinato settore. Queste però, a mio modo di vedere, dovrebbero essere norme di carattere regolamentare aventi la matrice nel legislatore statale. È ormai un discorso di vecchia maniera ed incuriosisce relativamente, ma l'articolo 121 non è una norma folle.
Le competenze iure proprio sono gestite dalla regione con proprie leggi. Inoltre, l'ultimo comma dell'articolo 117 della Costituzione prevedeva le norme di attuazione delle leggi statali, ma la normativa regionale di attuazione delle leggi statali avrebbe potuto essere perfettamente intesa come normativa secondaria, così come oggi noi non consideriamo senza la più piccola incertezza normativa secondaria quella che ha matrice nella competenza statale, cioè quelle leggi regionali delegate di cui parla l'articolo 117 nell'ambito del nostro sistema.
Nel sistema attuale, in cui esistono princìpi fondamentali, la legge regionale ha spazi ma con senso del pudore. Il legislatore regionale deve scendere ed enunciare certe regole che la giunta poi potrà elaborare, immaginando che lo statuto conferisca tale competenza alla giunta stessa, che è un organo certamente non del tutto adatto a muovere in settori che siano di vertice. Tenuta al guinzaglio per competenze minori (competenze esecutive ed attuative della legge regionale) può essere condivisibile ma non per spazi maggiori se vogliamo evitare la commistione delle competenze del consiglio regionale. Se vogliamo una normativa regolamentare regionale che proceda ad un centro di produzione diverso dal consiglio regionale, quest'ultimo è l'unico organismo veramente rappresentativo della collettività e dobbiamo lasciare ad esso questa competenza.
Nelle aree in cui la regione ha maggiori spazi, soprattutto perché in sostanza i freni sono minori, immaginerei sempre la presenza di una legge regionale. Nulla di male che venga emanata una norma gemella della legge n. 400 del 1988 che stabilisca in via generale con legge regionale il riparto tra legge regionale primaria e regolamento, purché i regolamenti si muovano con gli spazi non completamente invasivi di quel minimum che la legge regionale deve conservare in campo.
Mi rendo conto che il discorso diventa fumoso e per molti aspetti pieno di imprecisioni ma in pratica la funzione primaria regionale non è rinunciabile né nel campo delle competenze nelle quali è previsto il princìpio fondamentale statale, né in quello in cui i princìpi fondamentali vivono in uno stato molto più etereo ed evanescente, pur essendo, a mio modo di vedere, presente ed immanente nell'ordinamento in presenza di una Repubblica che resta una ed indivisibile, come recita l'articolo 5 che vive optimo iure all'interno della nostra Costituzione.
Quindi, alcuni princìpi fondamentali sono desumibili con qualche acrobazia dall'articolo 120, comma 2, della Costituzione, mentre altri sono formulati in forma canonizzata. Si poteva ragionare anche in modo diverso negli anni '70. Certo, il fenomeno era, ripeto, di diverse proporzioni. Tuttavia, affermare che la regione resta in sostanza chiusa nelle sue competenze fino a quando i princìpi fondamentali non sono elaborati dal legislatore statale, mi sembra francamente una rottura troppo forte rispetto alle linee sostenute in passato.
Siamo stati abituati a vedere realizzarsi la magica operazione di riaddensamento, a livello di valori, all'interno di norme che erano presenti nell'ordinamento e vivevano immutate. L'interprete e prima di tutto la regione sono stati abituati ad identificare il valore supremo. Per la verità, grandi fraintendimenti in passato non sono avvenuti. Ripeto, però, che questo è un discorso per metà di natura giuridica e per l'altra metà di natura politica.
PRESIDENTE. Ringrazio il presidente De Roberto per la sua disponibilità.
Ci auguriamo che i dubbi di oggi diventino certezze nel prossimo futuro, pur dubitando fortemente anche di ciò.
(La seduta, sospesa alle ore 11, è ripresa alle ore 11,30).
PRESIDENTE. Onorevoli senatori, proseguiamo l'indagine conoscitiva sugli effetti nell'ordinamento delle revisioni del Titolo V della Parte II della Costituzione con l'audizione del Presidente della Corte dei conti, professor Francesco Staderini, e del Procuratore generale presso la Corte dei conti, dottor Vincenzo Apicella, che ringrazio per aver risposto all'invito della Commissione.
I nostri ospiti sono oggi presenti in questa sede per comunicarci le loro valutazioni, in prima battuta, sulla riforma regionale e sulla sua influenza sull'attività del prestigioso organo del quale fanno parte, che - come è noto - non solo è organo ausiliare del Governo ma è anche giudice contabile e, quindi, interessato alla parte di "federalismo fiscale" previsto dalla riforma regionale.
Do subito la parola al presidente Staderini.
STADERINI. Signor Presidente, signori senatori, innanzi tutto vi ringrazio per l'invito ad essere ascoltato su un tema, quello della riforma del Titolo V della Costituzione, che - come del resto è emerso dalle audizioni dei giorni scorsi dei Presidenti emeriti della Corte costituzionale - ha profondi e problematici riflessi sul sistema dei controlli sugli atti delle regioni e degli enti locali disciplinati dai vecchi articoli 125 e 130.
Le funzioni di controllo della Corte dei conti trovano il loro principale e diretto riferimento nell'articolo 100 della Costituzione, la cui collocazione nel Titolo III lo pone al riparo dalla recente riforma costituzionale.
Sulla base di tale precetto costituzionale, la Corte esercita, come è noto, il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato.
Con la legge n. 20 del 1994 è stata attuata una profonda riforma delle funzioni di controllo della Corte dei conti. Da un lato, il controllo preventivo è stato sensibilmente ridotto e conservato nei confronti di una serie circoscritta di atti del Governo di particolare importanza e di elevata rilevanza istituzionale; dall'altro, alla Corte è stata intestata una funzione di generalizzato controllo successivo sulle pubbliche gestioni, non solo dello Stato ma anche delle regioni e degli altri enti di autonomia. La Corte ha così assunto una posizione centrale nel sistema dei controlli e nell'intera organizzazione amministrativa, al punto che la Corte costituzionale, a partire dalla fondamentale sentenza n. 29 del 1995, le ha riconosciuto il ruolo di organo indipendente al servizio, non dello Stato-persona, ma dello Stato-comunità, "garante imparziale dell'equilibrio economico-finanziario del settore pubblico" e, in particolare, "della corretta gestione delle risorse collettive sotto il profilo dell'efficacia, dell'efficienza e dell'economicità".
I controlli successivi sulla gestione che la Corte è stata chiamata a svolgere nei confronti delle pubbliche amministrazioni si caratterizzano per la loro natura essenzialmente collaborativa, dal momento che, secondo l'insegnamento della Corte costituzionale, "il controllo dei risultati della gestione è, prima di tutto, diretto a stimolare, nell'ente o nell'amministrazione controllati, processi di «autocorrezione» sia sul piano delle decisioni legislative, dell'organizzazione amministrativa e delle attività gestionali, sia sul piano dei controlli interni". Per il che - dice sempre la Corte costituzionale - "è determinante l'attribuzione di tale funzione ad un organo, come la Corte dei conti, la cui attività contrassegna un momento di neutralizzazione rispetto alla conformazione legislativa (politica) degli interessi".
Per quanto riguarda in particolare gli enti di autonomia territoriale, è ancora la Corte costituzionale ad aver sottolineato come il controllo sulla gestione, delineato dalla legge n. 20 del 1994, è ancorato in Costituzione non nelle disposizioni di cui agli articoli 100, 125 e 130, ma nel disegno costituzionale che permea l'agire di tutte le amministrazioni pubbliche, delineato in base ai princìpi del buon andamento dei pubblici uffici (articolo 97), della responsabilità dei funzionari (articolo 28), del tendenziale equilibrio del bilancio (articolo 81) e del predicato dello stesso articolo 119. Ancor più, vorrei aggiungere che il testo ora riformato, nel sancire la completa autonomia finanziaria degli enti territoriali, individua strumenti cui sarà rimesso attuare la solidarietà tra regioni ricche e regioni meno ricche. Mi riferisco, in particolare, alla disposizione contenuta nel comma 3 dell'articolo 119 che, nell'istituire un "fondo perequativo" per i territori con minore capacità fiscale per abitante, implica la verifica sia del prelievo delle risorse che le regioni più ricche destinano a quelle più povere, sia dell'economico ed efficiente impiego delle risorse affluenti alle regioni meno dotate. Si tratta di un precetto costituzionale con il quale non solo non contrasta l'attribuzione alla Corte dei conti, ad opera della legge n. 20 del 1994, del controllo sulla gestione finanziaria di regioni ed enti locali, ma che anzi la Corte è bene in grado di assolvere, da posizione indipendente e neutrale, svolgendo un ruolo di analisi e di informazione sul corretto impiego delle menzionate risorse.
Analoghe considerazioni valgono con riguardo alla norma costituzionale che prevede la destinazione di risorse aggiuntive e l'effettuazione di interventi speciali a favore delle aree sottosviluppate del Paese (articolo 119, comma 5).
La disciplina della nuova funzione di controllo, impostata - come ho detto - su verifiche dei risultati della gestione e dei prodotti amministrativi, ha lasciato alla Corte medesima il compito di organizzarsi per meglio svolgere i propri controlli anche nei confronti delle regioni e degli altri enti di autonomia.
La Corte, in questo modo, autorizzata dal decreto legislativo n. 286 del 1999, ha approvato, il 16 giugno 2000, il regolamento per l'organizzazione delle funzioni di controllo che, oltre ad innovare l'articolazione degli organi di controllo centrali, ha istituito nelle regioni a statuto ordinario le sezioni regionali di controllo, che sono in funzione dal 1° gennaio di quest'anno.
Le sezioni regionali, oltre ad esercitare il controllo sulle amministrazioni statali decentrate, esercitano il controllo sulla gestione delle amministrazioni regionali e valutano, con esito di referto, il perseguimento degli obiettivi stabiliti dalle leggi regionali di princìpio e di programma. In buona sostanza, in questo rapporto collaborativo con le regioni, la Corte dei conti, lungi dall’atteggiarsi come un potere statale che si contrappone all’autonomia regionale, svolge un compito al servizio della più generale esigenza di buona e sana amministrazione.
Il nuovo assetto organizzativo attribuisce alle sezioni riunite della Corte il compito di definire annualmente il quadro di riferimento programmatico, anche pluriennale, delle analisi di finanza pubblica e dei controlli sulla gestione, nonché i relativi indirizzi di coordinamento e criteri metodologici di massima; quadro di riferimento e indirizzi dei quali le sezioni centrali e periferiche, all’uopo concertate, tengono, poi, conto per la programmazione annuale del controllo di propria competenza.
Sempre a fini di garantire un omogeneo svolgimento delle analisi, al presidente della Corte dei conti è attribuita una generale funzione di coordinamento delle attività delle diverse sezioni centrali e regionali.
Tale funzione di coordinamento si attua, principalmente, attraverso la convocazione periodica di conferenze dei presidenti delle sezioni, al fine di individuare e monitorare le analisi comuni a più sezioni, valutando anche i riflessi operativi ed organizzativi.
Il controllo successivo sulle amministrazioni regionali è rivolto, da un lato, a supportare il controllo politico dell’organo rappresentativo e, dall’altro, a coadiuvare l’esecutivo nell’adozione di misure correttive volte a garantire, in futuro, la regolarità e l’economicità della gestione oggetto di controllo.
In un tale contesto, particolare rilievo assumono i momenti di comparazione e di confronto sistematico dell’agire delle diverse amministrazioni regionali in settori di interesse comune e di particolare impatto sociale.
Infatti, uno dei problemi maggiori che emergono nell’attuale evoluzione dell’ordinamento è quello che alla condivisibile espansione dell’autonomia delle scelte gestionali non corrisponde la ricostruzione di un quadro unitario finanziario, funzionale alla riallocazione delle risorse, né gestionale.
Il controllo esterno svolto in chiave comparativa non ha, in definitiva, la funzione di dare "pagelle" o voti, di valutare chi è più o meno bravo, ma è inteso a rappresentare e confrontare gli esiti delle soluzioni amministrative adottate, in termini di economicità, di efficienza e di efficacia, prospettando alle autonome valutazioni di ciascun ente l’opportunità di seguire percorsi orientati in una o in un’altra direzione (ad esempio, acquisti e servizi centralizzati o diffusi, ricorso all’esterno alternativamente alla produzione in proprio, e così via), naturalmente nei margini, del resto sempre più ampi, consentiti dalla normativa di riferimento.
Mi preme sottolineare come questi profili emergano con maggiore forza in settori di particolare rilievo, quali quelli dei trasporti e della sanità, dove più marcato è il processo di aziendalizzazione, di competizione, sia pure «amministrata», con il mercato, di attenzione all’economico impiego delle risorse e, insieme, alla qualità dei servizi.
Per questo, le nostre sezioni riunite, in sede di programmazione generale del controllo per il 2001 e applicando una metodologia di lavoro innovativa, hanno individuato i temi della sanità e dei trasporti locali quali settori su cui tutti gli organi di controllo periferici svolgeranno analisi «unitarie», con il metodo comparativo.
Tali analisi, che sono in buono stato di avanzamento, hanno lo scopo di sottoporre all’attenzione e alla meditazione di amministratori e funzionari delle singole regioni le diverse opzioni sul piano dei modelli ordinamentali e dei moduli operativi e le possibili conseguenze e ricadute nell’ordine effettuale e consentiranno, nei settori interessati, verifiche di risultato a livello nazionale, in maniera tale da confrontare fra loro le singole realtà regionali ed individuare, poi, le eventuali deficienze a livello locale.
Questo è il percorso che la Corte dei conti sta compiendo guidata dal legislatore e dall’insegnamento della Corte costituzionale.
Non è quindi un tardivo «adattamento» al predicato del nuovo articolo 114 della Costituzione affermare la natura di organo della Repubblica della Corte dei conti e delle sue sezioni regionali.
Mi sono molto soffermato sulla funzione ausiliaria e collaborativa nei confronti delle regioni. Sono compiti, questi, che la Corte intende mantenere perché conformi ai princìpi costituzionali e, se il Parlamento lo vorrà, ulteriormente potenziare.
In alcuni miei recenti incontri con autorità politiche nazionali e regionali, ho rappresentato l’interesse e la disponibilità dell’Istituto a rafforzare il rapporto collaborativo, anche attraverso l’adozione di iniziative legislative volte ad integrare la composizione delle sezioni regionali del controllo con magistrati di designazione regionale, in modo che risulti ancora più intenso ed evidente il legame delle sezioni stesse con i poteri locali.
Le modalità attraverso cui ciò potrà realizzarsi sono naturalmente tutte ancora da definire, così come potranno essere individuati gli strumenti per concertare l’iniziativa con gli enti interessati.
Un altro tema desidero ancora sottolineare: si tratta della possibilità (ventilata, per ora, soltanto come ipotesi di studio) che vengano introdotte anche nel nostro ordinamento distinte ed autonome istituzioni di controllo esterno in ogni regione, come accade in altri Stati europei a struttura federale o para-federale, in particolare Germania e Spagna, dove sono presenti Corti dei conti centrali e Corti dei conti dei Länder o delle Comunità autonome, con competenze di controllo concorrenti e talvolta sovrapposte sui medesimi ambiti, in corrispondenza dell’intersezione delle competenze amministrative tra livello di governo centrale e livelli di governo decentrati.
Prescindo dal soffermarmi sulla palese illegittimità di tali iniziative, in rapporto sia all’articolo 5 della Costituzione, sia alle esigenze di coordinamento della finanza pubblica secondo i princìpi fondamentali posti dallo Stato ai sensi del nuovo testo degli articoli 114 e 119; vorrei invece evidenziare l’inopportunità di tale scelta.
Come è emerso in un recente Congresso dell’EUROSAI (l’Organizzazione europea delle Istituzioni superiori di controllo), tenutosi a Madera nel maggio 2001, tali modelli, nella pratica, non vanno esenti da criticità, relative essenzialmente ai rischi di duplicazioni e lacune, ed alla possibilità di conflitti circa la delimitazione delle rispettive competenze di controllo.
Per ovviare a tali problemi, viene adottata una serie di strumenti di coordinamento. In Germania, essi consistono essenzialmente in accordi di collaborazione a carattere multilaterale o bilaterale e in periodiche riunioni della Conferenza dei presidenti, che hanno come scopi principali la promozione di iniziative di concertazione, l'informazione reciproca e lo scambio di esperienze e di metodologie di controllo. Tali iniziative scontano, però, il limite dell'adesione volontaria e non garantiscono la risoluzione dei conflitti nell'esercizio concreto del controllo.
In Spagna, è operante dal 1989 una Commissione generale di coordinamento, che si riunisce, in via informale e senza periodicità prestabilita, anch'essa su base negoziale. Le numerose iniziative di coordinamento sono tuttavia limitate ad aspetti parziali (corsi di formazione, determinazione di criteri e tecniche comuni di controllo, incontri di carattere tecnico), mentre manca del tutto il coordinamento in termini di programmazione. Ciò ha determinato di fatto sovrapposizioni di controlli e interferenze, la cui soluzione non può che ricercarsi in sede di conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale. Mi risulta addirittura che sia in fase avanzata di predisposizione un trattato tra le Corti dei conti delle diverse comunità autonome. La soggettività di ciascuna comunità implica che la rinunzia all'assunzione dei limiti debba attuarsi attraverso convenzioni di tipo internazionale.
Ritengo che il modello italiano di una Corte dei conti unitaria, articolata in sezioni regionali, presenti indubbi vantaggi di coordinamento rispetto ai modelli ora descritti, caratterizzati da una pluralità di istituzioni di controllo regionali, distinte da quella centrale. Esso favorisce la programmazione delle rispettive attività di controllo, anche al fine di assicurarne la sincronia, lo svolgimento di controlli congiunti sugli aspetti orizzontali dell'azione amministrativa, l'utilizzazione di criteri e tecniche comuni, la presentazione alle Assemblee elettive e alle amministrazioni di referti unitari, contenenti standard di efficienza ed efficacia determinati su base comparativa nazionale.
Vorrei poi porre in evidenza che soltanto una Corte unitaria può garantire, da un lato, l'intero sistema regionale della corretta applicazione dei principi e dei meccanismi del cosiddetto federalismo fiscale, dall'altro, le singole amministrazioni regionali e le corrispondenti comunità amministrate, soprattutto quelle che hanno dovuto rinunciare ad una parte del prelievo fiscale per alimentare i fondi di riequilibrio, del buon impiego di questi fondi da parte delle regioni beneficiarie.
Infine, non va trascurato che la natura magistratuale dell'organo di controllo, con le connesse garanzie di indipendenza e neutralità, comporta maggiore credibilità e autorevolezza.
Non diversamente da quanto avviene per le regioni, i riferimenti costituzionali del controllo in atto esercitato dalla Corte dei conti sugli enti locali sono del tutto estranei alla previsione e alla portata dell'articolo 130, ora abrogato. Sono quelli della Corte, come è noto, controlli con esito di referto al Parlamento circa gli andamenti e i risultati complessivi della finanza locale (articolo 13 della legge n. 51 del 1982) e controlli, ora di competenza delle sezioni regionali, in via successiva sulle attività gestionali delle amministrazioni locali. Questi ultimi, come per i controlli sulle regioni, trovano il proprio fondamento nella legge n. 20 del 1994 e oggi il primo riferimento costituzionale nelle esigenze di coordinamento della finanza pubblica predicate dai nuovi articoli 117 e 119 della Costituzione.
Potrei anche interrompere qui la mia esposizione sugli effetti della riforma costituzionale e sui controlli in atto esercitati dalla Corte. Ma come studioso del diritto degli enti locali - e non da oggi - che ha il privilegio di essere ascoltato da un così autorevole consesso, oltre che come presidente della Corte dei conti, non posso non approfittare dell'occasione per sottoporre alcune riflessioni e preoccupazioni. Un esame comparativo degli ordinamenti vigenti nei principali Stati a noi limitrofi, permette di evidenziare che in quasi tutti questi Stati esistono forme di controllo, in alcuni casi anche puntuali, sui principali atti amministrativo-contabili degli enti locali minori, esercitati ovviamente con diverse modalità e ampiezza da parte delle Corti dei conti o organi equivalenti degli Stati unitari o degli Stati federati (länder, comunità autonome, eccetera).
Richiamo in particolare la soluzione adottata in Francia con l'attribuzione alle Camere regionali dei conti, collegate alla Corte dei conti nazionale, di un incisivo potere di controllo sui bilanci degli enti locali. Ricordo anche i controlli attribuiti in Germania e Austria alle Corti dei conti dei länder, spettando a queste ultime in quegli ordinamenti, le verifiche sui bilanci degli enti di autonomia territoriale.
Ora, è veramente opportuno che in Italia qualsiasi ente locale, quale che sia la sua dimensione, sia esente da ogni controllo puntuale su atti fondamentali come il bilancio? È vero che la stessa situazione si verifica anche per le regioni, con ciò dando luogo a una palese differenziazione con la situazione prevista per le amministrazioni statali, per le quali permane il controllo preventivo sancito dall'articolo 100 della Costituzione, sia pure nei limiti ridotti posti dalla riforma del 1994. Ma sugli enti locali minori pesano negativamente le ridotte dimensioni e la scarsa funzionalità dei controlli interni. Per essi, inoltre, la differenziazione sussiste non solo rispetto all'amministrazione statale, ma anche - come ho appena detto - con riguardo alla gran parte delle amministrazioni locali europee.
Il presidente Elia, la scorsa settimana, nell'audizione presso questa Commissione, ha richiamato e sembra avere condiviso l'opinione avanzata da alcuni autori favorevoli alla possibilità di introdurre controlli puntuali almeno sui bilanci, ritenendo, con l'autorità che nella materia gli va riconosciuta, che ciò non sia precluso dall'abrogazione dell'articolo 130 della Costituzione. L'opinione sembra da condividere anche in relazione alla nuova formulazione degli articoli 117 e 119, che garantiscono l'autonomia finanziaria degli enti locali, così come delle regioni, entro i rigorosi confini derivanti dall'adesione all'Unione europea. Di essi è espressione il cosiddetto Patto di stabilità interno, che chiama anche i minori enti territoriali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica fissati in sede comunitaria.
Questa mia riflessione non vuole essere una vindicatio potestatis della Corte dei conti e non intende avanzare alcuna candidatura per il mio Istituto. Ha solo lo scopo di porre l'accento su un problema a mio avviso grave e urgente.
Le recenti modifiche delle norme ricomprese nel Titolo V della Costituzione che, per le ragioni fin qui esposte, non incidono sui poteri di controllo della Corte dei conti nei confronti delle regioni e degli enti locali, non hanno certamente alcun riflesso sulla funzione giurisdizionale in materia di responsabilità, che trova il suo fondamento costituzionale nell'articolo 103, contenuto nel Titolo IV.
Si tratta di una funzione di fondamentale importanza per lo Stato democratico, essendo diretta a tutelare l'interesse della collettività alla corretta gestione delle risorse e del denaro pubblico, sanzionando i soggetti che abbiano causato danno erariale per inosservanza dolosa o gravemente colposa degli obblighi di servizio. Trattasi, quindi, di una funzione di garanzia che costituisce naturale completamento del potere di controllo della Corte dei conti. Funzione con finalità preventivo-sanzionatorie, la cui precipua valenza costituzionale trova oggi una rafforzata ragion d'essere, tenuto conto che le riforme introdotte, nell'intento di garantire l'autonomia dell'azione amministrativa, hanno ridotto significativamente, o totalmente escluso, il controllo preventivo di legittimità sugli atti.
È in effetti imprescindibile che al venir meno della funzione di prevenzione del danno erariale, connaturata al controllo che si esplica prima che l'atto amministrativo venga portato ad esecuzione, faccia da contrappeso una più incisiva vigilanza sulla corretta gestione delle risorse pubbliche che, per essere concretamente efficace, deve attuarsi non solo nella forma del controllo sui risultati della gestione al fine di valutarne l'economicità e l'efficienza, ma anche attraverso l'azione contenziosa pubblica di responsabilità che, ferma restando l'autonomia dell'azione amministrativa, mira a colpire - con sanzioni proporzionate all'entità del danno, ma anche alla misura della riprovevolezza della condotta - le più gravi trasgressioni degli obblighi di servizio da cui sia derivato un danno erariale.
Il legislatore ha configurato, per la responsabilità amministrativa, un'azione pubblica diretta a colpire i più gravi illeciti amministrativo-contabili, salvaguardando comunque i poteri di indirizzo e di scelta politica degli amministratori pubblici e privilegiando, rispetto ad un difficile ed incerto effetto ripristinatorio e risarcitorio, il perseguimento certo di un effetto preventivo-sanzionatorio a garanzia del buon andamento dell'amministrazione.
Ho concluso il mio intervento. Sono ovviamente a disposizione per rispondere alle vostre domande.
PRESIDENTE. Dottor Staderini, la ringraziamo per la completezza dell'intervento e per il fatto di aver cercato di fornire alcune risposte alle domande che noi ci stiamo già ponendo circa la "resistenza" dei sistemi di controllo vigenti al nuovo assetto costituzionale e alla possibilità di renderli più efficaci. Credo che la vicenda interessi tutti, lo Stato, le regioni e le autonomie locali.
Do la parola al dottor Apicella.
APICELLA. Signor Presidente, ringrazio lei e i senatori per aver invitato, non soltanto il Presidente della Corte dei conti, ma anche il Procuratore Generale, con ciò dando espressione ad una realtà poco conosciuta dal grosso pubblico.
Il Procuratore Generale non è della Corte dei conti, ma presso la Corte dei conti. Quindi ha una sua funzione autonoma, che è stata riconosciuta e delineata dalla sentenza n. 29 del 1995 della Corte costituzionale, la quale, volendo rispondere alla preoccupazione sollevata da una regione circa la possibilità di un controllo giudiziario dell'azione delle regioni, aveva ventilato la convinzione che la procura generale della Corte dei conti non fosse che il braccio secolare dell'azione di controllo. Che ci sia una corrispondenza logica è fuori di dubbio, altrimenti le funzioni della Corte dei conti non sarebbero mai state così abbinate (controllo e giurisdizione). Ma tengo a ribadire in questa sede la realtà, riconosciuta, come ho detto, dalla giurisprudenza costituzionale, secondo la quale la giurisdizione di responsabilità, ancorché delineata e costruita nella finalità di controllo di garanzia del denaro pubblico come controllo, ha un proprio ambito ed una propria struttura. Ecco perché io credo di avere titolo ad esprimere le mie idee e a portare le mie informazioni. Quest'audizione è da me vista come un'occasione affinché si conosca ad altissimo livello - è il caso del Senato della Repubblica - qual è lo stato della giurisdizione di responsabilità.
Il presidente Staderini ha già detto che l’articolo 3 della nuova legge costituzionale non ha interessato la giurisdizione di responsabilità, in quanto, esplicitamente, aggiungo io, con il nuovo articolo 117, alla lettera l), si riserva alla legislazione esclusiva dello Stato la materia della giurisdizione e delle norme processuali. E la giurisdizione è quella della Corte dei conti. Quindi, non si dovrebbe fare alcuno sforzo nel dire che la situazione costituzionale (e della legge ordinaria) riguardante la giurisdizione della Corte dei conti è rimasta immutata.
Quali sono allora le norme che reggono la materia? Intanto, l'articolo 103 della Costituzione, che recita espressamente: "La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge". Come ha precisato più volte la Corte costituzionale, non si tratta di un potere generale, bensì di un potere che, per l'esercizio, la struttura e le modalità di funzione, necessita dell'interposizione legislativa, non delle regioni, ma dello Stato, in quanto esplicitamente così sancito.
A questo punto, per completare questa mia esposizione, che fin qui sarebbe fin troppo facile, piuttosto descrittiva della norma costituzionale intervenuta, voglio informarvi circa lo stato della giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti, specialmente per quanto riguarda le regioni, gli enti locali e le amministrazioni decentrate. Ho già parlato della copertura costituzionale di questa funzione. Per quanto riguarda la struttura, le funzioni, le procedure e le modalità del suo esercizio, ci gioviamo, ed il verbo non è casuale, della riforma che è intervenuta nel periodo che va dall'inizio del 1994 alla fine del 1996. Mi riferisco alle leggi nn. 19 e 20 del 1994 e 639 del 1996.
Una riforma che all'inizio è apparsa un po’ farraginosa, piena di sovrapposizioni, di intersecazioni e che ha creato anche problemi di diritto intertemporale. Ma questi cinque anni di applicazione della riforma hanno dimostrato come essa abbia risposto in maniera sempre più soddisfacente alle esigenze dell'ordinamento e delle amministrazioni pubbliche.
Non ho bisogno di fare un riferimento astratto e generale per dire che le normative e le istituzioni sono tanto più valide in quanto seguono la realtà amministrativa e quella sociale.
Intrattenendomi poco fa con il Presidente e con alcuni senatori, con un po’ di civetteria ho ricordato che lavoro da 41 anni alla Corte dei conti e da 47 anni servo lo Stato; 47 anni di attento lavoro. In questi lunghi anni ho potuto verificare l'evoluzione che ha subito tale organismo. Esso aveva una struttura, se non proprio ottocentesca, che comunque non andava oltre le finalità e le funzioni dello Stato quali erano prima della guerra. Ho vissuto, con tutti i miei colleghi e gli uffici della Corte, il tormento di assistere ad una normativa che produceva strutture e funzioni sempre più vetuste rispetto alla realtà emergente. Così, dopo la Costituzione, il nostro ordinamento era già diventato vecchio, ma lo è diventato ancora di più con la delega delle funzioni dello Stato ad enti giuridici diversi, non solo locali. Di conseguenza il blocco monolitico dell'amministrazione dello Stato, e quindi del controllo, si è dissociato. La Corte dei conti per molti decenni è rimasta un blocco unitario mentre nell'amministrazione si compiva l'inevitabile e a volte utile trasformazione.
Così, negli anni 1992 - 1993 la situazione non era più sostenibile e con una serie di decreti-legge si determinarono alcune riforme parziali, a macchia di leopardo e poco coordinate. Finalmente furono approvate le leggi di conversione e, per quanto riguarda la giurisdizione della Corte dei conti, le leggi nn. 19 e 20 del 1994 ne hanno stabilito il principio.
Personalmente sono ottimista circa il buon funzionamento di questa riforma, anche nella nuova realtà regionale che incalza e che, piaccia o no, è una realtà che avanza perché trova il suo fondamento nel convincimento di larga parte dei cittadini.
A mio giudizio, l'ordinamento della Corte dei conti - e quindi, a monte, anche della procura generale - è idoneo ad affrontare questa realtà regionale (un domani forse federativa, ma ad oggi è impossibile fare delle previsioni). Questo perché le leggi nn. 19 e 20, e ancora di più la n. 639 del 1996, hanno reso più umana, più idonea e più consona la giurisdizione di responsabilità attraverso istituti che hanno finalmente differenziato, sul piano giudiziario e giuridico, il concetto di responsabilità amministrativa da quello di responsabilità civile. Quest'ultima, infatti, risponde ad altre esigenze, mentre quella amministrativa risponde ad esigenze di interesse pubblico e di buona gestione dell'amministrazione. E i correttivi, che in un primo momento suscitarono perplessità e che successivamente si rivelarono esatti, hanno teso innanzitutto a stabilire che il vincolo di responsabilità è diventato personale e non trasferibile agli eredi, come avviene, viceversa, per la responsabilità civile. Questo perché la responsabilità del funzionario (tranne i casi di dolo) rientra nella giurisdizione di persone per bene, funzionari o agenti dello Stato che sbagliano. Quindi, per la tranquillità del loro lavoro e per la loro dignità, è necessario che si tratti di una giurisdizione umana. Questo è accaduto con l'affermazione del vincolo di responsabilità solo personale e con la restrizione della responsabilità solo alla parte del procedimento relativa al danno.
Un altro correttivo concerne il potere riduttivo; si tratta di una specialità del nostro Istituto e di una creazione dei nostri antenati, molto meno sprovveduti di quanto si possa credere, che è stato riconosciuto da una recentissima sentenza della Corte Costituzionale, e precisamente la n. 340 del 24 ottobre 2001, pubblicata qualche giorno fa. Il potere riduttivo è, in sostanza, la facoltà che l'organo giudicante Corte dei conti ha di ridurre in termini logici ed umani la condanna al risarcimento dei danni. La Corte Costituzionale con questa «pennellata», che peraltro ho accolto con molto favore, specifica che questo risarcimento deve essere commisurato alla capacità economica del soggetto. Infatti, i danni arrecati all'amministrazione possono riguardare miliardi e certe volte si tratta di funzionari che hanno sbagliato ma che certo non possono rispondere di miliardi, pur dovendo in ogni caso pagare qualcosa.
Stiamo quindi marciando lentamente verso una concezione sanzionatoria e non di responsabilità.
Un altro concetto esattissimo è quello dell'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali compiute dalle amministrazioni. Le amministrazioni, infatti, devono essere libere di scegliere e spesso la critica a posteriori è impietosa ed ingiusta. Oggi le scelte discrezionali delle amministrazioni (naturalmente nel limite della ragionevolezza, come ci insegna la Corte Costituzionale) non sono perseguibili.
Bisogna anche tenere conto dei vantaggi che l'amministrazione pubblica può ricevere da un atto che, per un verso, ha recato danno e per un altro ha portato vantaggi. Vi è una sorta di compensatio lucri cum damno.
Vi è, inoltre, il problema della responsabilità degli organi collegiali. Non intendo dilungarmi su tale tematica in quanto voglio subito affrontare l'argomento dell'invito a dedurre, che fa tanta paura.
L'invito a dedurre è una sorta di comunicazione giudiziaria che però, da un'iniziale concezione sana, ha finito per avere un'applicazione non buona, quasi perfida. Infatti, chi riceve dal Procuratore Generale della Corte dei conti l'invito a dedurre già si sente condannato. Al riguardo, preciso che l'invito a dedurre è un atto dovuto e non necessariamente precede l'atto di citazione. Spesso gli atti di invito a dedurre, che danno luogo poi alle deduzioni, portano all'archiviazione. Quello che raccomando ai miei colleghi procuratori è di fare attenzione poiché l'invito a dedurre di per sé non significa molto, ma sappiamo anche che l'opinione pubblica non è dello stesso avviso. Di conseguenza, è necessaria la massima discrezione e la segretazione di tale comunicazione, anche per una forma di rispetto verso noi stessi e per la nostra immagine quando archiviamo gli atti dopo aver pubblicato sulla stampa la chiamata in responsabilità di un soggetto, anche autorevolissimo, come a volte è accaduto.
Concludo con il tema che mi ero proposto. La nostra giurisdizione di responsabilità, oggi, senza bisogno di grandi modifiche o rettifiche, si adatta perfettamente al nuovo assetto dell'amministrazione regionale (e domani al federalismo). Lasciando autonome le regioni e le nostre sezioni, abbiamo la capacità, il potere e la competenza di fungere da cinghia di trasmissione per trasmettere le informazioni al Parlamento. Voglio citare ancora l'articolo 5 della Costituzione nella sua formula lapidaria: «La Repubblica, una e indivisibile...». È una frase che ha origini storiche, che risale alla Rivoluzione francese, come è stato ricordato anche in questa sede. Nel momento in cui vi è la necessità di una esaltazione delle autonomie locali, si sente anche - parlo da cittadino, non come magistrato - l'esigenza di esaltare l'unità nazionale; mai come ora vi è stato il bisogno di una unità di intenti, anche nelle inevitabili competizioni internazionali. Questo vale anche nella giurisdizione di responsabilità che deve essere uguale per criteri, per tempi e anche nelle connessioni con l'amministrazione delle regioni e degli enti locali.
Termino con un ricordo personale. Uno o due anni fa ho parlato con un sindaco molto sensibile ai richiami dell'autonomia e dell'indipendenza, Leoluca Orlando. Ho detto: «Sindaco, lei è una persona che ha tanta esperienza e capacità politica, ci deve pensare: deve ringraziare che esista una procura generale della Corte dei conti prima che una giustizia amministrativa, perché con questo organo esterno, autonomo e indipendente potete controllare meglio l'organizzazione amministrativa e affermare che, oltre a una responsabilità disciplinare, vi è il pericolo di una responsabilità contabile». Quindi, anche in questo caso, una collaborazione ancora più del controllo.
PRESIDENTE. Ringrazio il procuratore generale Apicella per la sua esposizione. Speriamo che gli strumenti per il controllo vengano anche potenziati, visto lo scenario di normazione generale cui andiamo incontro.
MAGNALBÒ (AN). Concentrerò in un breve intervento l'insieme delle domande al Presidente e al Procuratore Generale.
Premetto che a mio avviso il pericolo delle autonomie è direttamente proporzionale al grado di cultura delle comunità che ne usufruiscono.
Per quanto riguarda l'invito a dedurre (analogo all'avviso di garanzia), Procuratore, tante volte il guaio sta proprio nella notifica. Ho fatto l'avvocato per trentacinque anni e purtroppo so come funzionano gli uffici degli ufficiali giudiziari. Per la notifica di questi atti un sistema più corretto potrebbe essere quello di una trasmissione diretta dall'ufficio interno, non attraverso gli ufficiali giudiziari. Perché, appena un atto che desta meraviglia o interesse arriva presso gli uffici giudiziari, viene fotocopiato e divulgato ovunque.
Rivolgo la domanda al Presidente relativamente al tema «Corte dei conti unitaria e sezioni regionali». Vengo da Ancona, dove vi è un servizio efficientissimo; so che queste sezioni regionali hanno funzionato molto bene. Ma di fronte alla struttura federale cui ci stiamo avviando (una struttura di autonomie, piuttosto che federale), sarebbe più opportuno - non ho capito bene le sue considerazioni - ricorrere a queste camere regionali (come avviene in Francia), con competenze concorrenti o sovrapposte o è meglio mantenere il sistema che abbiamo, centralizzato con delle ramificazioni? E cosa è meglio per il controllo di tutti gli enti locali, di fronte a quello che si prepara per il futuro?
Una domanda al Procuratore. Questa sentenza della Corte costituzionale del 24 ottobre che effetti avrà, in pratica, sul lavoro presente, passato e futuro della Corte dei conti?
Terzo aspetto. Ho partecipato ad un convegno sulle case da gioco che si è svolto nel Lazio. In quella sede è stato riferito che i bilanci delle quattro case esistenti (Sanremo, Venezia, Campione d'Italia e Saint Vincent) da anni non vengono richiesti dal Ministero dell'interno. Questi bilanci portano al loro interno poste che servono per essere usate dai servizi: non sarebbe opportuno che venissero analizzati da qualcuno?
FALCIER (FI). Per il Presidente della Corte dei conti avevo predisposto una domanda alla quale almeno in parte è stata data risposta. Le nuove disposizioni costituzionali, complessivamente, rafforzano o indeboliscono la funzione, il compito del controllo della Corte dei conti e più in generale il sistema dei controlli? Mi riferisco in modo particolare ai controlli relativamente agli enti locali - se ne è parlato anche in sede di altre audizioni - essendosi determinata una carenza, se non un vuoto. Vi è qualche proposta, qualche riflessione su questo aspetto particolare?
Ho colto il riferimento alla formula, che potrebbe essere di collaborazione più che di ispezione nei confronti delle Regioni; ho colto anche il riferimento a eventuali magistrati regionali, che andrebbero a collaborare. Ho capito che sono tutte formule, istituti da costruire e valutare. Può dirci qualcosa di più su questo argomento, come semplice ed eventuale ipotesi?
Ultima considerazione. Dal vostro autorevolissimo posto di osservazione, il regime dei controlli interni relativamente agli enti locali o agli enti decentrati è stato o è ritenuto efficace, ai fini di una sana e buona amministrazione?
Desidero rivolgermi in modo particolare al Procuratore, ringraziandolo per la sua lezione - la interpreto così - da cattedratico, ma anche per la passione che ha messo nella sua analisi e nell'approfondimento che ha voluto darci. Ho colto tutte le sue considerazioni, quindi non avrei nulla da aggiungere, dovrei solo prendere nota preziosa di suggerimenti e raccomandazioni.
Vorrei porre un dato. Attualmente il livello di esame è praticamente limitato a due gradi, quello regionale e il vostro. Le chiedo se in base alla sua esperienza lei ritiene tale livello sufficiente o se quanto oggi è previsto per il terzo grado limitato a specifici ben noti casi faccia rilevare l'opportunità di prevedere anche per la giurisdizione contabile un terzo grado più cogente, più congruo, se non di merito, almeno di legittimità.
MAFFIOLI. (CCD-CDU:BF). Vorrei porre una domanda al Presidente della Corte dei conti riguardo al controllo degli enti locali. Sembra che attualmente in merito al controllo dei bilanci ciascuno potrebbe seguire una sua direzione. Vorrei sapere se a suo parere esiste comunque la possibilità che un comune, soprattutto di piccole dimensioni, si rivolga all'ente di controllo, quand'anche questa nuova normativa possa anche consentire diversamente.
APICELLA. Le domande poste sono estremamente interessanti. Mi è stato chiesto se ora possiamo fare qualcosa. Adesso è possibile perché avremo anche un maggiore incentivo a compiere certe azioni e ad utilizzare determinate cautele. La sentenza n. 340 della Corte costituzionale è molto interessante.
Colgo inoltre l'occasione per segnalare alcune particolarità che riguardano le regioni. Innanzitutto si afferma che la materia della responsabilità amministrativa rientra nelle competenze della provincia autonoma di Bolzano, dovendosi ritenere ricompresa nelle previsioni dell'ordinamento degli uffici del personale. Si tratta di diritto positivo.
È importante una necessità che si pone, e che bisognerà approfondire, relativa ad un pubblico ministero che si articoli su tutta la Repubblica. Questo ordinamento di cui è competente la provincia di Bolzano - non so se lo stesso sia previsto per le altre provincie autonome e per le altre regioni - apre molto alla responsabilità dei governanti delle regioni e delle provincie. Infatti, in merito a certi doveri di risposta, probabilmente le regioni potrebbero essere più attente rispetto ad un legislatore nazionale il quale può considerare situazioni comuni ma non particolari. Ovviamente tale potere va controllato e ben gestito senza esagerazioni. Tutto questo non mi desta preoccupazioni perché è interesse delle regioni a che esista una certa responsabilità; in assenza di responsabilità non può esistere dovere di cittadino.
Un nostro collega di grande valore ha fatto riferimento allo schuldenhaftung della dottrina tedesca, affermando che la responsabilità (haftung), esiste anche nel campo amministrativo. Bisogna però fare attenzione: non può esistere uno schulden in assenza di un haftung; una responsabilità di una certa rilevanza è necessaria. Questo argomento è molto delicato e a prima vista può destare alcune preoccupazioni.
In merito al potere riduttivo ho già espresso alcune considerazioni.
Le case da gioco sono nel nostro mirino. Sono stati emessi giudizi piuttosto clamorosi su una casa da gioco in particolare ma in quel caso si trattava di comportamenti colposi e dannosi. Il senatore Magnalbò ha chiesto quale sia il livello di controllo. Noi avvertiamo la necessità di un coordinamento del controllo che attualmente sulle case da gioco non esiste. Trent'anni fa il controllo sulle case da gioco era esercitato da tre altissimi magistrati, il presidente di sezione della Corte di cassazione, un alto magistrato del Consiglio di Stato e un presidente di sezione della Corte dei conti, i quali esercitavano i controlli due o tre volte l'anno. Non era molto ma era qualcosa; ho l'impressione che ora non esista nemmeno questo. È quindi necessario un coordinamento del controllo perché poi deve intervenire il Procuratore Generale.
Il senatore ha colto un punto essenziale ed emblematico di tutta la situazione, dal momento che nelle case da gioco circola molto denaro ed è quindi necessario che per queste si definisca un sistema di controllo.
In merito alla opportunità di un terzo grado nella giurisdizione contabile, vorrei ricordare che esistono due sezioni centrali che lavorano molto bene e attuano una giurisprudenza di alto livello. Prevedere un terzo grado allungherebbe i tempi di trattazione di una causa, anche perché queste tre sezioni lavorano con molta accuratezza e a volte contestano anche alcune pronunce della procura generale. Inoltre, per le materie di giurisdizione e per i punti essenziali della giurisdizione di competenza esiste sempre la Cassazione con la quale abbiamo un notevole scambio di carte. Anche in questo ambito però ci stiamo evolvendo. Prendo comunque nota di questa osservazione e mi riservo di verificare se le tre sezioni lascino aperte o meno alcune questioni.
STADERINI. Le questioni poste dai senatori sono parte essenziale del dibattito; inoltre, è stato fatto riferimento a problemi molto attuali. Le domande sono state poste da diversi senatori ma hanno molti elementi in comune.
È stato chiesto se il controllo sulle regioni debba essere esercitato da una Corte dei conti nazionale articolata in sezioni regionali o da organi di controllo istituiti nell'ambito di ciascuna regione.
Il primo sistema è quello seguito in Italia, in Francia e in Inghilterra. Il secondo sistema è invece seguito negli ordinamenti tedesco ed austriaco e in parte anche in quello spagnolo. Infatti, come sapete, l'ordinamento spagnolo è regionale a geometria variabile - mi sembra lo chiamino in questo modo - ed ha delle comunità autonome dotate di vasti poteri e di propri organi di controllo ed altre comunità sempre autonome ma soggette al controllo della Corte centrale.
Le ragioni che militano in favore della conservazione di una Corte dei conti unica, articolata in sezioni regionali, risiedono nel fatto che soltanto attraverso un coordinamento centrale e una comparazione a livello nazionale dei diversi modi di procedere, si può esercitare un effettivo controllo sulla gestione. Il controllo sulla gestione, secondo quanto prevede la legge n. 20 del 1994 e secondo quanto si pratica in tutto il mondo, mira ad accertare il conseguimento degli obiettivi fissati dalle leggi di bilancio e di programma e, nel nostro caso, dalle stesse leggi regionali. Esso mira anche a stabilire come questi obiettivi sono stati raggiunti, nel senso di valutare la qualità dell'azione amministrativa e quindi - come dice sempre la legge - i suoi tempi, i suoi modi e i costi.
Questa valutazione ha lo scopo, innanzitutto, di mettere la stessa amministrazione regionale e, all'occorrenza, il consiglio regionale nelle condizioni di svolgere una riflessione sui propri comportamenti per rilevare se era o meno il caso di comportarsi in modo diverso, considerato che altre regioni, comportandosi in modo differente, hanno voluto raggiungere obiettivi migliori, traguardi più ambiziosi ed hanno potuto registrare risparmi nei costi. Affinché questo sia possibile, la comparazione deve essere realizzata a livello nazionale. Mi domando quale senso avrebbe realizzare una comparazione all'interno della stessa regione e mettere a confronto un comune con un altro sempre della stessa regione. Per quanto riguarda l'amministrazione regionale, il confronto potrebbe realizzarsi tra un ufficio distaccato in una provincia con un altro distaccato in altra provincia della stessa regione, ma avrebbe un valore molto limitato. Questo è tanto vero che, anche negli ordinamenti dove vi è una Corte dei conti degli Stati federati (naturalmente con una propria magistratura), l'esigenza del coordinamento porta ad inventare conferenze periodiche dei Presidenti, nelle quali si confrontano e cercano di trovare delle modalità comuni d'azione. Tutto questo, però, avviene su base volontaria o in base ad accordi e convenzioni sul tipo dei trattati internazionali, perché si tratta di soggetti diversi fra i quali nessuno è tenuto a mettersi in competizione o comunque in confronto con gli altri.
C'è da dire che la Costituzione italiana è particolare e si caratterizza, soprattutto nella nuova formulazione, per aver previsto il federalismo cosiddetto solidale, ossia per aver previsto che risorse finanziarie prelevate in regioni più ricche affluiscano in fondi di riequilibrio e siano destinate a vantaggio di altre regioni meno dotate. Questa particolarità presuppone che ci sia un organismo non della stessa regione ma a livello statuale che controlli innanzitutto la corretta applicazione dei meccanismi per quanto concerne il prelievo delle risorse nelle regioni più ricche, e che soprattutto attesti il buon uso che viene fatto dalle regioni beneficiarie dei fondi stessi, che rappresentano il sacrificio di popolazioni appartenenti alle regioni più dotate.
Mi domando quale credibilità potrebbe avere una attestazione che fosse posta in essere da un organo di controllo della stessa regione beneficiaria, eletto dal consiglio regionale di quella stessa regione. Mi chiedo quale senso e quale credibilità avrebbe quella regione - non faccio il suo nome, ma mi riferisco ad una delle regioni più povere del Meridione - che, attraverso la sua Corte dei conti locale, affermi che tutto va bene. È evidente che è notevolmente maggiore la credibilità di un organo nazionale che svolge questo mestiere da circa 140 anni, che è soprattutto una magistratura e, quindi, indipendente e non è eletto dal controllato (come avverrebbe nel caso di una Corte dei conti locale).
Quindi, ritengo che la soluzione italiana sia preferibile e l'ho potuto constatare anche in alcuni confronti. Prima ho parlato di un convegno a cui ho partecipato, che ha avuto come tema proprio questo scottante del coordinamento tra istituzioni di controllo all'interno dei vari Stati nazionali. In quel convegno alcuni colleghi hanno affermato che noi siamo fortunati, perché non abbiamo problemi come scontri molto forti ed enormi rivendicazioni, come accade - per esempio - ad un'istituzione di controllo (è un caso avvenuto nei Paesi Baschi) nei confronti della Corte dei corti nazionale.
Certo, bisogna che le sezioni regionali si presentino non come organi dello Stato che, per conto di quest'ultimo, controllano le regioni, perché sarebbe un fatto completamente inaccettabile. Si devono presentare invece come organi della Repubblica, ossia come espressione sia dello Stato che delle regioni e degli altri enti autonomi. Questo non solo lo possono ma lo devono fare, perché la Corte dei conti è sempre stata qualificata nella Costituzione come organo dello Stato-comunità.
Si avverte l’esigenza - rispondo ad un'altra domanda che mi è stata rivolta - di caratterizzare maggiormente la qualificazione delle sezioni regionali anche come organi delle regioni. La Corte dei conti è d'accordo nel procedere in questa direzione, ossia nel dare alle regioni la possibilità di designare alcuni magistrati componenti delle sezioni regionali, per cui il collegamento con le stesse regioni sarà ancora più evidente e maggiore.
Debbo dire che in questo senso il progetto si sta confrontando e sta riscuotendo molte adesioni, sia a livello del Governo che di alcuni Presidenti delle regioni, almeno di quelli che ho interpellato. Naturalmente si dovrà pronunziare la Conferenza dei Presidenti delle regioni, perché possono essere più di uno i modi con cui si deve provvedere. Si può, infatti, scegliere il modello seguito in Sicilia dal Consiglio di giustizia amministrativa che, accanto a magistrati del Consiglio di Stato, vede anche magistrati eletti dal consiglio regionale, che durano in carica lo stesso tempo del consiglio e quindi una legislatura; si può seguire un'altra strada, che potrebbe essere quella di riservare una quota di magistrati di nomina governativa alle regioni. Probabilmente sapete che il Governo può nominare un certo numero di consiglieri della Corte dei conti e questo potere di nomina a sua scelta è finora avvenuto nei confronti di alti funzionari del centro, che si sono ben distinti secondo le considerazioni del Governo e quindi meritavano tale nomina.
Nulla impedisce, però, che in uno Stato che si decentra e che si articola in espressioni autonomistiche questo potere non sia più riservato esclusivamente al Governo ma venga esteso, nel senso che una parte di tale aliquota (prevedendo magari un aumento dell’aliquota di nomine governative), può essere riservata a componenti designati da realtà regionali. Queste sono le due strade da perseguire, sulle quali siamo liberi e aperti a suggerimenti e scelte delle stesse regioni.
Ci preme affermare il nostro controllo sulle regioni perché la Corte dei conti è nata come istituzione statale che ha saputo evolversi nel tempo, resistendo al cambiamento dei regimi, alla mutazione degli ordinamenti costituzionali. Ora deve anche saper sopravvivere a questo forte mutamento nella struttura e nelle caratteristiche dello Stato italiano.
Abbiamo l’ambizione di poter continuare a servire il Paese, come abbiamo fatto finora, attuando questo controllo che - ripeto - è un controllo di collaborazione non su atti preventivi, che ne impedisce quindi l’efficacia, ma un controllo che ha per oggetto la gestione, cioè il modo di operare, e che cerca di suggerire le correzioni che autonomamente ciascuna amministrazione deve fare: è il controllo applicato in tutti gli Stati più moderni del mondo poiché il controllo preventivo sugli atti è ormai diventato regressivo e sussiste soltanto in pochissimi Stati.
E’ stato poi chiesto se la nuova disciplina costituzionale comporta mutamenti per quanto riguarda i controlli. Ho appena detto che non comporta mutamenti per quanto riguarda i controlli effettuati dalla Corte dei conti. Il problema è naturalmente diverso per quanto riguarda i controlli finora esercitati dalle commissioni statali sulle regioni e dai Comitati regionali di controllo sugli enti locali. Sapete benissimo, perché ne hanno diffusamente parlato anche i Presidenti emeriti della Corte costituzionale, che ci sono due interpretazioni. Secondo la prima, l’abrogazione degli articoli 125 e 130 della Costituzione avrebbe fatto venir meno immediatamente i controlli, perché questa era l’intenzione del costituente; secondo un’altra interpretazione, invece, l’abrogazione di questi articoli avrebbe come conseguenza che l’attuale ordinamento è costituzionalmente illegittimo. Però, fin quando la Corte costituzionale non ne dichiara la illegittimità costituzionale o, come sarebbe certamente più opportuno, l’intervento del legislatore non lo abroga, continua ad avere efficacia.
Queste sono le due interpretazioni su cui, per quanto mi riguarda, è inutile che prenda posizione, essendo qui come Presidente della Corte dei conti e non come professore universitario.
Con riguardo agli enti locali, è necessario riflettere con molta attenzione sulla possibilità che venga meno qualsiasi forma di controllo puntuale (quando dico di controllo puntuale mi riferisco non al controllo sulle gestioni ma su atti precisi e, nel mio caso, la preoccupazione riguarda l’atto bilancio) perché - come ho già affermato - nella gran parte degli Stati europei gli enti locali minori prevedono questi controlli puntuali in maniera più intensa proprio laddove il controllo viene esercitato dalle stesse regioni; nei sistemi tedesco e austriaco dai Länder perché gli enti locali non hanno l’autonomia prevista nel nostro ordinamento, non sono, come previsto nella nuova disciplina costituzionale, di pari dignità costituzionale rispetto alle regioni, ma sono enti che fanno parte dell’ordinamento regionale e la regione ne disciplina l’organizzazione, le funzioni, i controlli e, in molti casi, li esercita anche direttamente, mentre in altri casi li fa esercitare dalla Corte dei conti regionale.
In quasi tutti i Länder vi sono ordinamenti che prevedono controlli puntuali anche molto intensi. La stessa cosa succede anche in Francia con le Camere regionali dei conti che hanno nei confronti dei bilanci e dei consuntivi poteri penetranti per accertare l’équilibre réel, cioè il pareggio reale e non quello formale, cioè l’esistenza di entrate e spese che si bilanciano: il pareggio reale, quindi, per controllare che non vi siano state rappresentazioni di entrate inesistenti o sottostime di spese. Tale controllo viene effettuato attraverso l’esame del bilancio e, se questo pareggio non convince, attraverso l’individuazione degli strumenti delle variazioni da apportare al bilancio per realizzarlo, entrando quindi proprio nel merito.
Non intendo affermare che si deve seguire un sistema piuttosto che un altro. Intendo, invece, sottoporre alla vostra attenzione e a quella del Senato la mia forte preoccupazione, che probabilmente è anche la preoccupazione di molti amministratori locali. Dobbiamo sottostare, infatti, anche a obblighi internazionali e ciò comporta che vi siano dei vincoli in materia finanziaria.
Certamente, questo controllo non potrà più essere esercitato dai Comitati regionali di controllo. Non potrà più essere esercitato da organi regionali per il semplice motivo che la nuova Costituzione ha reso indipendenti gli enti locali dalle regioni; per quanto concerne l’ordinamento e le funzioni, gli enti locali hanno una posizione costituzionale parallela a quella delle regioni nel nostro ordinamento. La situazione è diversa nell’ordinamento tedesco, perché in esso si prevede che siano le regioni ad esercitare tale controllo.
Nella nostra realtà ciò non sarebbe fattibile perché potrebbe dar luogo a rilievi di costituzionalità; è, quindi, necessario prevedere altre soluzioni nei limiti strettamente indispensabili (e non oltre tali limiti perché controlli puntuali più vasti sarebbero dannosi) a garantire il corretto esercizio di tale autonomia finanziaria; è già previsto il controllo successivo sulla gestione ed è prevista la giurisdizione di responsabilità. Sono, quindi, contrario a reintrodurre un controllo preventivo al di fuori di atti, come il bilancio, sui quali è necessaria un’attenta riflessione.
L’altro argomento riguarda i controlli interni che nelle amministrazioni dello Stato funzionano poco e, ho timore, che funzionino ancora meno nelle amministrazioni locali. Non ci si può, quindi, fidare troppo, soprattutto se si prende come riferimento un piccolo comune. Non dobbiamo dimenticare che degli 8.000 comuni italiani, la grande maggioranza ha meno di 2.000 abitanti: si tratta, quindi, di piccolissime realtà. In comuni con qualche centinaio di abitanti, che senso ha parlare di controlli interni?
Mi sembra di avere fornito una risposta a tutte le domande formulate, ma resto comunque a disposizione per ulteriori eventuali chiarimenti. Vorrei aggiungere che la Corte dei conti vuole essere ancora nel Paese per adempiere alla sua funzione di garanzia della legittimità e, ora, dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa tutta, sia dello Stato, che delle realtà locali autonome.
PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Staderini e il dottor Apicella per essere intervenuti. Faremo senz’altro tesoro delle osservazioni e dei suggerimenti, anche problematici, che ci avete offerto in questa seduta di Commissione. Se vi saranno successive riflessioni o osservazioni provvederemo a comunicarle.
I lavori terminano alle ore 12,58