Vincenzo Cerulli Irelli La provincia nell’attuazione e nel completamento del nuovo ordinamento costituzionale. (bozza provvisoria della relazione)
Il profilo istituzionale della Provincia sulla fine della XIII Legislatura e al momento dell’entrata in vigore della l. cost. n. 3/2001, che ha radicalmente modificato il nostro quadro di riferimento, è fondamentalmente quello delineato dal t.u. approvato con d. l.vo. 18.8.2000 n. 267; testo che costituisce, se così possiamo dire, il precipitato normativo di tutte le innovazioni assai consistenti che hanno caratterizzato la legislazione degli anni 90 sul governo locale, segnatamente per quanto riguarda la provincia.
Questo antico ente del governo locale, una volta contestato nella
sua stessa esistenza, si puo’ dire acquista una connotazione
istituzionale forte e solida e un profilo chiaro in termini funzionali,
soltanto a seguito di questa legislazione.
Anzitutto la provincia diviene, senza piu’ alcun equivoco, ente
di governo della propria comunità, chiamato a curarne gli interessi, a
promuoverne e a coordinarne lo sviluppo (art. 3). Cio’ che elimina
ogni dubbio residuo circa la configurazione della provincia come ente a
fini generali. A mio giudizio (ma non di tutti) essa lo è sempre stata
ma sulla base di questa normativa lo è indiscutibilmente. E così acquista piena autonomia statutaria, normativa, organizzativa e
amministrativa nonché autonomia impositiva e finanziaria sia pure
nell’ambito delle leggi che coordinano la finanza pubblica. La
provincia diviene altresì come il comune, per espressa disposizione di
legge, titolare di funzioni proprie, tipiche del suo stesso esistere
come ente di governo, oltre che di quelle conferite dalla legge dello
Stato o della regione secondo la rispettiva competenza.
E la stessa normativa definisce sia pure in larga massima
l’ambito delle funzioni proprie della provincia distinguendo quelle
amministrative e quelle di programmazione. Tra le prime la norma dopo
un’elencazione abbastanza ricca di materie (da quelle di tutela
ambientale a quelle sanitarie a quelle di gestione del territorio e di
viabilità a quelle concernenti la cultura e l’istruzione) dispone in
termini generali che la provincia in collaborazione con i comuni e sulla
base di programmi concordati “promuove e coordina attività, nonché
realizza opere di rilevante interesse provinciale sia nel settore
economico, produttivo, commerciale e turistico, sia in quello sociale,
culturale e sportivo” (art. 19). Insomma la provincia si
occupa di tutto cio’ che ritiene utile e necessario per gli interessi
della propria comunità usando a tal fine gli strumenti predisposti
dall’ordinamento da quelli di diritto comune alla disciplina prevista
per la gestione dei servizi pubblici locali.
Ma a queste funzioni di carattere amministrativo la norma
aggiunge quelle di programmazione
economica e sociale del territorio, e la stessa pianificazione
territoriale mediante l’adozione del piano territoriale di
coordinamento (art. 20). In queste funzioni, come per altro ampiamente
sottolineato da tutti i commentatori, propriamente viene esaltato il
ruolo della provincia come ente di programmazione
che opera in posizione a volte sovraordinata a volte paritaria
esercitando sempre compiti di coordinamento nei confronti degli enti
locali. Si ricorda che la norma generale sopra menzionata attribuisce
alla provincia non solo il compito di promuovere lo sviluppo ma quello
di coordinarlo, il che significa che essa opera in stretta connessione
con gli enti locali minori, comuni e associazioni di comuni
coordinandone appunto l’azione di governo.
L’attuazione delle leggi c.d. Bassanini nell’ultima fase
degli anni 90 ha ulteriormente rafforzato il ruolo della provincia che
è divenuta destinataria di importanti settori amministrativi
nell’ambito dell’operazione di trasferimento. Basti ricordare quello
della viabilità e quello delle politiche del lavoro, ormai divenute
nella sostanza materie provinciali per tutto quanto non è riservato
allo Stato.
E si deve ancora ricordare in questo quadro generale, che
un’importanza decisiva nella esaltazione del ruolo politico della
provincia, sicuramente ha avuto (ancora
più che per il comune) la
riforma del 1993 sull’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di
provincia: ché soprattutto nelle zone del Paese caratterizzate da una
presenza di piccoli comuni salvo il comune capoluogo, zone cioè nelle
quali l’ente provincia puo’ effettivamente svolgere un ruolo
dominante anche per le sue dimensioni organizzative, l’elezione
popolare del presidente ne fa in qualche modo il capo politico o il
principale esponente politico della comunità provinciale, cio’ che
necessariamente lo pone al centro, dal punto di vista politico di tutti
gli enti del governo locale presenti nel territorio provinciale e dei
loro amministratori.
Alla fine del decennio, dell’amministrazione provinciale nel
suo complesso si puo’ dare il seguente quadro quantitativo e
funzionale. Anzitutto Personale complessivamente in servizio, circa 60.000 unità,
di cui 8.800 trasferite nell’ambito dell’operazione di decentramento
di cui alla l. 59/97 (al netto del personale ATA trasferito allo Stato,
in virtu’ dell’art. 8 della l. 124/99, ammontante a circa 10.000
unità); un complesso di entrate di poco superiore ai 10.000 miliardi di
cui 5.400 di entrate proprie, 3.350 circa derivanti da trasferimenti
erariali, 1.400 circa derivanti dal trasferimenti regionali.
Questi dati raffrontati a quelli delle amministrazioni comunali
appaiono ancora piuttosto esigui: ché il personale complessivamente in
servizio presso i comuni ammonta a circa 500.000 unità e il complesso
delle entrate comunali ammonta a 65.000 miliardi circa. Deve pero’
osservarsi che il recente trasferimento di funzioni ha in qualche modo
privilegiato le provincie verso le quali sono state dirottate risorse
che rappresentano circa il 40% delle risorse dirottate verso i comuni,
in luogo del consueto 10% che da tempo le risorse provinciali
rappresentano rispetto a quelle comunali.
E ancora puo’ essere notata come una significativa inversione
di tendenza la percentuale di mezzi propri delle provincie, rispetto ai
trasferimenti, che nell’ultimo periodo è aumentata sino a superare il
50%; mentre tuttavia in ambito comunale supera ormai il 70% della
finanza complessiva di questi enti.
Quanto alle funzioni, il quadro delineato dal t.u. corrisponde
grosso modo alla realtà anche se, deve essere osservata l’importanza
che va assumendo il settore delle politiche del lavoro dopo il
trasferimento attuato sulla base della l. 59/97; il rafforzamento delle
funzioni di governo e gestione del territorio, dalla pianificazione alla
tutela dell’ambiente, alla viabilità , e così quelle concernenti
l’istruzione, la cultura e quelle concernenti lo sviluppo economico.
In realtà la provincia si va configurando ormai come un ente di governo
complessivo del proprio territorio anche se operante piu’ sul versante
della programmazione e del coordinamento che sul versante
dell’esercizio diretto delle funzioni e dei servizi, come dimostra
peraltro la sua finanza ancora relativamente esigua.
Nelle aree metropolitane caratterizzate cioè dalla presenza di
comuni di grandissime dimensioni e di altri comuni “i cui insediamenti
hanno con essi rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine
alle attività economiche, ai servizi essenziali, alla vita sociale
nonché alle relazioni culturali e alle altre caratteristiche
territoriali” (art. 22 t.u.), la provincia dovrebbe trasformarsi in
Città metropolitana: in un ente assai piu’ ricco di funzioni, che
assomma in sé tutte le funzioni della provincia e molte di quelle
comunali, e si articola non piu’ in comuni ma in amministrazioni
municipali decentrate nell’ambito dell’area metropolitana. Invero
questo processo, pur concepito dalla legge in maniera abbastanza
elastica così da consentirne una attuazione graduale, ancora non parte;
e percio’ allo stato, l’ente di area intermedia resta la provincia
in tutte le situazioni territoriali, sia in quelle metropolitane che
non. Sul punto si deve tuttavia sottolineare l’importanza del passaggio
istituzionale scandito a partire dalla l. 142/90 (dalla provincia alla
citta’ metropolitana in tutte le aree metropolitane) perché invero il
ruolo proprio e caratterizzante la provincia, di coordinamento, di
programmazione e di pianificazione, si esercita proficuamente in un
universo territoriale popolato da enti medio piccoli mentre si inceppa a
fronte di enti di grandissima dimensione e sovrastanti la stessa
provincia quali sono i comuni metropolitani.
Non puo’ essere trascurato il processo concepito dalla legge
per la costruzione della città metropolitana, tutto concertato tra gli
enti territoriali coinvolti, la provincia, il comune capoluogo, gli
altri comuni, che vede una fase intermedia nella quale, in attesa della
costituzione della città metropolitana quale nuovo ente di governo, gli
enti dell’area esercitano in modo coordinato tra loro e mediante forme
associative, una serie di funzioni, dalla pianificazione territoriale
alla difesa del suolo alla tutela dell’ambiente, alle attività
culturali, etc. (art. 24 t.u.) che afferiscono tanto alla competenza
provinciale che a quella comunale. Né puo’ essere trascurato questa
volta in termini negativi, il fatto che questo processo non sia ancora
decollato.
E invero la provincia è fortemente coinvolta nel processo di
aggregazione degli enti
locali minori cui è ispirata la piu’ recente legislazione (principi
di sussidiarietà e di adeguatezza); ché i compiti di programmazione e
di coordinamento spettanti alla provincia richiedono all'interno del suo
territorio, la presenza di enti locali dotati di sufficiente capacità
di governo così da potere interloquire nell’ambito di un complessivo
disegno inteso alla gestione dei servizi e alla promozione dello
sviluppo. E ha un certo significato, in questa prospettiva, la recente
norma della legge finanziaria 2001 (art 52, n. 388/2000) che attribuisce
alla provincia il compito di coordinare il processo associativo dei
comuni imposto dall’operazione di trasferimento in attuazione della l.
n. 59/97, attribuendo in via interinale alla provincia stessa le
funzioni e i compiti destinati alle amministrazioni comunali in attesa
della loro aggregazione associativa.
Il nuovo quadro costituzionale inaugurato dalla l. cost. n.
3/2001, modifica profondamente i principi che reggono il governo locale
nel nostro Paese nei suoi rapporti sia con la regione che con lo Stato,
la sua capacità complessiva di amministrazione e di governo nei
confronti della collettività.
Invero il nuovo testo porta alle estreme conseguenze la
caratterizzazione fortemente pluralistica e autonomistica già propria
della nostra Costituzione e chiarissima nei principi della sua prima
parte (part., art. 5) non sempre tuttavia coerentemente svolti. Certamente ha un forte rilevo nel disegno complessivo del sistema,
l'affermazione che la Repubblica sia “costituita dai comuni, dalle
provincie, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato”
con pari dignità politico costituzionale di tutti questi enti. Ma ha
ancora piu’ peso l’affermazione che tutti gli enti del governo
territoriale, dalla regione alla provincia (o alla città metropolitana)
al comune “sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni
secondi i principi fissati dalla Costituzione” (art. 114). Insomma la
pari dignità politico costituzionale si traduce qui in una parità di
regime giuridico di tutti gli enti del governo territoriale, tutti
definiti nel loro contesto ordinamentale, tanto sul versante
organizzativo che su quello funzionale, dai principi della Costituzione
(cio’ che nel precedente testo poteva affermarsi solo per le regioni).
E ancora, ha un forte peso in termini di capacità di governo
autonoma degli enti territoriali l’attribuzione ad essi di una potestà
regolamentare assai ampia, che potrebbe configurasi come capacità
riservata, in ordine “alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle funzioni loro attribuite” (art. 117, 6° co.). Mentre sul versante dell’amministrazione attiva, il testo conferma
quanto già stabilito nella legislazione ordinaria circa la titolarità
da parte di tutti gli enti locali sia di funzioni amministrative proprie
che di funzioni conferite con leggi statali o regionali (art. 118). La
previsione in Costituzione di funzioni amministrative proprie, significa
vincolo alla legislazione statale e regionale nel riconoscerne la
presenza nell’ambito delle proprie leggi a pena di illegittimità
costituzionale delle stesse. Ovviamente l’identificazione delle
funzioni proprie, al di là di quanto si può ricavare dalla
legislazione più recente, è compito dell’interprete e sarà oggetto
di giurisprudenza costituzionale. Mentre
la distribuzione sul territorio delle funzioni
amministrative, dovrà comunque tener conto della disposizione
del 1 ° co. dell’art. 118 che privilegia, come è noto, la
dislocazione delle funzioni a livello di comuni salva l’esigenza di
assicurane l’esercizio unitario. Principio questo che coinvolge anche
le provincie, nel senso che l’attribuzione di funzioni amministrative
alle provincie dovrà essa stessa trovare giustificazione nella esigenza
di assicurarne l’esercizio unitario nell’ambito del territorio
provinciale; mentre l’attribuzione delle funzioni alle regioni ad
esempio dovrà trovare giustificazione nell’esigenza di assicurarne
l’esercizio unitario nell’ambito del territorio provinciale; mentre
l’attribuzione delle funzioni alle regioni ad esempio, dovrà trovare
giustificazione nell’esigenza di assicurarne l’esercizio unitario
nell’ambito del territorio regionale; e così via. Tale criterio tuttavia, fa salve le funzioni proprie che restano
attribuite ad ogni livello di governo territoriale. Insomma il futuro
assetto dell’amministrazione dipenderà dall’integrazione del
principio di sussidiarietà in senso stretto che privilegia il livello
di governo comunale (tuttavia equilibrato ai principi di
differenziazione e di adeguatezza), e il principio della titolarità di
funzioni proprie che garantisce ad ogni ente di governo territoriale un
proprio e tipico ambito funzionale, identificativo del suo stesso
essere.
Sul versante finanziario il nuovo testo attribuisce a tutti gli
enti del governo territoriale, anche qui equiparando regioni, provincie,
città metropolitane, comuni, risorse autonome, tributi ed entrate
proprie, compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al
loro territorio (c.d. territorialità dell’imposta); e stabilisce il
principio che l’esercizio delle funzioni pubbliche di loro competenza,
da parte degli enti del governo territoriale deve avvenire con integrale
copertura mediante queste risorse (alle quali tuttavia si aggiungono
quelle derivanti dal fondo perequativo per i territori meno
avvantaggiati, “con minore capacità fiscale per abitante”). In
prospettiva, vengono soppressi i trasferimenti erariali, e direi anche
quelli regionali, certamente quelli con vincolo di destinazione.
Una finanza speciale e differenziata è prevista in favore delle
aree depresse (anche se questa dizione non compare) comunque laddove è
necessaria una particolare azione di promozione dello sviluppo
economico, della coesione e solidarietà sociale, di rimozione di
squilibri sociali, e così via. Ma una finanza speciale è prevista
anche laddove occorra provvedere da parte di determinati enti, “a
scopi diversi del normale esercizio delle loro funzioni” (si pensi per
tutti, al caso di Roma capitale). In questi casi lo Stato puo’
destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali (da
intendere, senza il divieto del vincolo di destinazione).
Questi a larghi tratti, i punti piu’ significativi del nuovo
testo che riguardano il nuovo assetto del governo locale. Restano aperti
una serie di problemi che mi limito qui di seguito ad indicare e che
dovranno essere risolti nell’esperienza dei prossimi mesi.
Sicuramente resta da definire il problema della spettanza della
potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali. Sul
punto, come si sa, nel precedente ordinamento delle regioni ordinarie (a
differenza delle regioni speciali) era esclusa ogni competenza
legislativa in materia di ordinamento degli enti locali ritenuta di
competenza esclusiva dello Stato. Nel nuovo contesto, la situazione si
è modificata non solo in virtu’ del diverso assetto del riparto delle
competenze legislative tra Stato e regioni, che, ribaltando il vecchio principio, attribuisce alle regioni e
non allo Stato, la competenza legislativa generale e residuale; ma anche
perché l’art. 117 nell’elencare le materie di competenza esclusiva
dello Stato, prevede tra esse “legislazione elettorale, organi di
governo e funzioni fondamentali di comuni, provincie e città
metropolitane” (art. 117, 2° co. lett. p). Non riserva cioè allo
Stato senz’altro l’ordinamento degli enti locali (come viceversa
viene previsto per la città di Roma: art. 114, ult. co.) ma le
componenti di tale ordinamento indicate espressamente dalla norma.
Cio’ che potrebbe far ritenere che in ordine alle altre componenti
dell’ordinamento locale, escluse quelle menzionate (ad es. l’assetto
dei controlli, l’assetto dell’organizzazione interna esclusi gli
organi di governo, la disciplina del personale e della contabilità, etc.),
sussista competenza legislativa regionale in virtu’ della clausola
generale di cui all’art. 117, 4° co, che attribuisce alle regioni
“la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non
espressamente riservata alla legislazione dello Stato”. Né tra le
materie di legislazione concorrente (art. 117, 3° co.) ve n’è
qualcuna che consenta di attribuire, nell’ordinamento degli enti locali, alla potestà
legislativa dello Stato, almeno la determinazione dei principi
fondamentali (salva, pur con qualche incertezza, la materia finanziaria
e contabile).
Sulla questione sicuramente incide l’attribuzione della potestà
regolamentare agli enti locali in materia di organizzazione e di
esercizio delle funzioni, cui si è già accennato (art. 117, 6° co.).
Si puo’ ritenere infatti che la collocazione nel testo costituzionale
di questa attribuzione, già peraltro contenuta, come si è detto, nella
legislazione ordinaria, ha proprio il valore di una riserva di potestà
normativa agli enti locali in questa materia. Sicuramente tale
attribuzione ha come effetto quello di escludere queste materie dalla
potestà regolamentare della regione (cui in principio la potestà
regolamentare è conferita dallo stesso art. 117, 6° co.). Dubbio
invece resta se essa possa produrre l’ulteriore effetto di escludere
in dette materie anche la potestà legislativa regionale. Essa comunque
ammesso che sussista, deve contenersi in limiti ristrettissimi, ai sommi
principi si direbbe; chè altrimenti l’attribuzione di potestà
regolamentare ai comuni e alle provincie stabilita dalla Costituzione,
non avrebbe un senso compiuto.
Piu’ specificamente resta aperto il problema dei controlli. Sul
punto credo si debba affermare che in virtu’ dell’abrogazione
dell’art.130 Cost. (art. 9 l. cost. n. 3/2001), i controlli preventivi
di legittimità sugli atti dei comuni e delle provincie sono stati
soppressi. Cioè si deve ritenere che l’abrogazione della norma
costituzionale abbia prodotto un effetto abrogativo della legislazione
statale e regionale attuativa della prima. Data la stretta connessione
tra le due normative.
Ma questo pero’ non significa che il sistema dei controlli per
gli enti locali sia cessato in ogni suo aspetto. Chè è vero il
contrario: il sistema dei controlli è tutto da costruire sulla base dei
nuovi principi di un’amministrazione efficace ed efficiente che deve
essere controllata nei risultati della sua azione, sulla base del d.
l.vo n. 286/99. La materia, ancora in larga misura da costruire nei suoi contenuti sulla
base di detti principi, si complica adesso per quanto riguarda gli enti
locali, per l’incertezza circa l’attribuzione della competenza
normativa. Credo che anche sulla base dei principi fortemente
autonomistici per tutti gli enti del governo territoriale, cui è
ispirato il nuovo testo, i controlli di gestione debbano essere previsti
da ciascun ente con proprio atto normativo (ovviamente per quanto
riguarda i piu’ piccoli comuni, questa materia deve essere gestita in
forma associata). Resta fermo naturalmente che gli enti tra loro possano
coordinarsi in sistema al fine di darsi in forme concordate controlli di
gestione unitari o almeno coordinati. E questo credo possa avvenire
anche nell’ambito di ciascun sistema regionale. Appare viceversa da
escludere che una competenza di tal fatta, di carattere generale e
imperativo possa spettare alla regione nell’ambito della sua potestà
legislativa generale. Questa infatti si estende alle materie di
competenza regionale, alle funzioni esercitate dagli enti in queste
materie, salva la disciplina delle modalità di svolgimento delle
funzioni stesse, riservata ai regolamenti locali; ma non investe il
funzionamento degli enti in quanto tale.
Il problema comunque resta aperto e dovrà essere oggetto di
esame nei prossimi mesi.
Le “funzioni fondamentali” degli enti locali sono
determinate, si è detto, con legge dello Stato. Ma quali sono le
funzioni “fondamentali”? E sono qualcosa di diverso rispetto alle
funzioni “proprie” previste
dall’art. 118? Sul punto si aprirà una delicata partita politica tra centro e
periferia nonché tra regioni ed enti locali nei prossimi mesi. Allo
stato si puo’ dire: funzioni fondamentali sono quelle identificative
dell’ente locale come ente di governo territoriale. La loro
determinazione dipende dall’evolversi dell’esperienza e percio’
non puo’ che essere frutto di ponderate scelte di politica
legislativa. Solo a titolo di esempio, posso dire che una funzione anni
fa neppure concepibile in capo alla provincia, quale il piano
territoriale di coordinamento, oggi è da ritenere una delle funzioni
fondamentali della provincia ai sensi dell’art. 117, perché
identificativa dell’ente secondo quanto sopra si è detto quale ente
di governo territoriale. Funzioni fondamentali degli enti locali possono afferire sia a materie
di competenza legislativa statale sia a materie di competenza
legislativa regionale, esclusiva o concorrente. In ogni caso, esse
devono essere identificate dalla legge dello Stato e questa
identificazione costituisce sicuramente un vincolo forte alla
legislazione regionale nelle singole materie. Si pensi ad esempio alla
legislazione urbanistica quale
in ipotesi, dovrà comunque riservare la pianificazione territoriale di
coordinamento all’ente provincia o il piano regolatore generale
all’ente comune, ove queste funzioni saranno (come credo necessario)
identificate come funzioni fondamentali rispettivamente della provincia
o del comune.
E’ da ritenere che la nozione di funzioni fondamentali non
coincida con quella di funzioni proprie, perché possono essere
considerate fondamentali, in quanto identificative dell’ente, anche
funzioni in ipotesi ascrivibili alla sfera di competenza di altro ente,
dello Stato o della regione. Si pensi soltanto alle attribuzioni del
comune (e del sindaco in particolare quale ufficiale del Governo), che
sono attribuzioni in cui il comune opera come organo dello Stato (e
quindi, non sono funzioni “proprie”) ma certamente sono
identificative del comune stesso quale ente di governo territoriale.
E’ immaginabile un comune senza anagrafe, senza polizia, senza
statistica, etc.?
Sul versante finanziario, i principi sopra ricordati lasciano
tuttavia sussistente una notevole differenza di regime tra regioni da
una parte ed enti locali dall’altra. Cio’ per una ragione molto
semplice: che in materia di imposte vige la riserva di legge posta
dall’art. 23 Cost. e percio’ le regioni con legge possono stabilire
tributi propri sia pure sulla base di principi di coordinamento generale
della finanza pubblica e del sistema tributario; mentre gli enti locali
possono limitari a intervenire sul sistema tributario nei limiti
stabiliti dalle leggi. Ma l’autonomia finanziaria, intesa nel modo che
si è detto, come piena capacità di destinazione delle proprie entrate,
e percio’ piena responsabilità di entrata e di spesa di fronte alla
collettività amministrata, accomuna gli enti del governo territoriale.
La prima attuazione del nuovo ordinamento sicuramente dà luogo a
molti problemi applicativi, e richiede da parte di tutti gli attori
politici e istituzionali coinvolti massima attenzione, e la piu’
proficua collaborazione.
A tal fine, mi pare molto opportuna la istituzione di una
“cabina di regia” partecipata dai rappresentanti di regioni,
province e comuni, in collaborazione con il Governo nazionale: come
luogo di concertazione e di raccordo circa le scelte da effettuare da
parte dei diversi soggetti (ovviamente senza prendere il luogo ad essi
assegnato dalla Costituzione).
Ma lo strumento politico previsto dalla Costituzione per
l’attuazione legislativa (mediante leggi dello Stato) del titolo V, è
la Commissione bicamerale di cui all’art. 11 della l. cost. n. 3/2001,
alla quale partecipano rappresentati delle regioni e degli enti locali.
Essa deve essere rapidamente costituita.
In particolare si deve ricordare che le leggi contenenti principi
fondamentali delle materie cui all’art. 117, 3° co., nonché quelle
contenenti il nuovo assetto finanziario del governo territoriale ai
sensi dell’art. 119, dovranno essere vagliate dalla Commissione prima
dell’approvazione da parte delle Assemblee parlamentari; le quali solo
con votazione a maggioranza assoluta potranno distaccarsi dai pareri
espressi su di esse dalla Commissione.
E si deve sottolineare, anche a fronte di proposte del Governo
che circolano in questi giorni, circa leggi delega, che la norma
costituzionale attribuisce alla esclusiva competenza parlamentare
l’approvazione di dette leggi, che perciò non potranno essere
sostituite da decreti legislativi.
Una prima legge generale attuativa del titolo V, potrà bensì
essere emanata, ma nello stretto ambito della competenza (non piu’
generale) che la Costituzione riserva alla legge dello Stato, e con il
rispetto delle forme e dei procedimenti normativi previsti. |